- Postfazione per ‘ROSANERO: IL CINEMA DI BILLY WILDER‘ di Giorgio Penzo
Se provassimo ad immaginare Billy Wilder come scrittore e a trasporre, per associazioni ed analogie, il suo mestiere di cineasta nel campo della letteratura, lo si vedrebbe come uno dei grandi autori di racconti del secolo scorso, ravvicinabile ad altri europei capaci di piegare la lingua inglese al proprio talento (come Brodskij o Nabokov).
Nel secondo dopoguerra, mentre in Italia la forma cinematografica dell’episodio rimandava con simpatia a Boccaccio e alla novella della tradizione toscana per raccontare i vizi del nostro paese, il viennese Wilder, puntando al continuo perfezionamento delle forme narrative che gli erano più congeniali, arrivò ad una sua personale miscela di satira, favola esopica sotto spoglie umane, analisi psico-sociologica novecentesca, calore sanguigno e secchezza sintattica (in senso visivo).
Inoltre, poteva vantare un campo d’osservazione privilegiato sul mondo occidentale, gli Stati Uniti che volevano imporsi nel ruolo di guida del mondo libero e diffondere i propri valori morali all’estero. L’industria hollywoodiana fu pertanto testimone della nascita del “Wilder touch” che contribuì a renderlo più amato e conosciuto presso il grande pubblico di Lubitsch, sua stella polare.
Il suo tocco, però, era wilder anche nel senso dell’aggettivo inglese e questo aveva origine da uno scetticismo derivato dall’osservazione dei suoi contemporanei, così dominante in lui, da permettergli di sovrascrivere, per mezzo della composizione narrativa e psicologica delle sue opere, i dialoghi fornitegli dai suoi sceneggiatori, poco importava che fossero George Axelrod o Diamond.
Billy Wilder, infatti, non credette mai agli americani e alle loro pubbliche ammissioni di felicità e appagamento, specialmente in rapporto alla loro vita erotica. In lui si coniugavano fin troppo bene lucidità e tendenza al sospetto perché potesse dar credito al racconto delle loro “pubbliche virtù”. Non è certo un caso che il motivo dell’illusione attraversi i suoi film più celebri, nel senso di messa in scena, travestimento, percezione errata del reale.
Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950), in questo senso, diventa emblematico per aver mostrato un fulgido esempio di una psiche e una sensibilità incistate nell’aura data dalla Fama, dalla spotlight e dal successo, cioè quella di Norma Desmond, incarnata da una Gloria Swanson che fa suo il film fin dalla prima apparizione.
L’atmosfera nella villa dell’ex-diva è da southern gothic, ma di un gotico afoso e arido da Costa Ovest americana, polveroso come gli interni riempiti da foto, suppellettili, ricordi di un’attrice stroncata dal cambiamento del suo mondo; un gotico insomma che ricorda il passato barocco e ispanico della California con una tensione morbosa verso il passato ed il mondo dei morti. Strizzando a suo modo l’occhio a Quarto potere (1941), il film sfrutta gli spazi della casa per manifestare all’esterno di Norma la sua mente che rifiuta lo scorrere del tempo.
Il volto è in questo caso parassitato dalla Persona, cioè dalla “maschera” secondo l’etimo: qualcosa che il timido poliziotto di Irma la dolce (1963) imparerà a sue spese, portando la trama del film verso la commedia degli equivoci e ricordandoci gli intrighi del vaudeville francese.
Norma Desmond, come quel personaggio più tardo nella filmografia di Wilder, è sia vittima che carnefice: tradotta in termini fiabeschi, la sua è la storia di una principessa che diventa strega una volta relegatasi nel suo castello. Seguendo questo ragionamento, il Joe Gillis di William Holden è un cavaliere che ha perso la strada, diventando così prigioniero della diva, lasciandosi corrompere dalla proprietaria e, in un ultimo sussulto di senso morale, rifiuta l’amore e la proposta di fuga della fanciulla virtuosa (Betty Schaefer/Nancy Olson).
Egli troverà la morte e la fama non in quanto narratore, come avrebbe sognato, ma in quanto vittima, in una catena di distruzione e logoramento provocata dal danno, risalente a molti anni prima, causato dall’opera infausta d’una dozzina di press agents su di un certo spirito ipersensibile.
Altro fattore che collega Gillis alla Desmond è quello del desiderio, dell’ideale mancato: loro non hanno la fortuna dei personaggi della Hepburn in Sabrina (1954) o Arianna (Love in the Afternoon, 1957), ragazze che riescono a vivere i loro sogni, semmai vedendoli incarnati in oggetti del desiderio inaspettati e capaci di scatenare in loro reazioni che mai avrebbero potuto prevedere.
In questi due casi, l’esperienza del doppio aiuta brillantemente le due protagoniste a fiorire: l’una diventa la donna che aveva sempre voluto essere, capace di riconoscere il principe giusto per lei; l’altra, in una storia anche più adulta, si dimostra capace di sedurre, accarezzando il pericolo e mettendo nel sacco il lupo cattivo, quasi fosse una Cappuccetto Rosso con più furbizia, come osserva il Morandini.
Arianna, in fondo, è una bambina che indossa gli abiti della madre per sentirsi donna: è questo che la rende memorabile e toccante. Il travestimento da lei creato è un potenziamento, non un impedimento come quello a cui sono costretti i due protagonisti di A qualcuno piace caldo (1959), con una sentenza di morte sulla testa e tutt’attorno l’aura di Weimar e del suo bagaglio di ambiguità.
La caratterizzazione di Arianna, peraltro, aiuta a capire quanto Wilder fosse capace di penetrare nei turbamenti dei suoi personaggi: questo è un film sulla crescita, sui primi battiti del cuore, le prime ansie di chi scalpita per sapere a che cosa conduca l’amore pur avendo solo una vaga idea del linguaggio dei sentimenti o dell’erotismo. In un certo senso, sembra una storia della Colette migliore filtrata secondo i dettami della commedia hollywoodiana: il nocciolo è europeo, quasi da racconto della Belle Époque, ma incartato in una confezione regalo made in USA.
Il finale, come accade anche nei film di un altro grande tedesco espatriato, il maestro del melodramma Douglas Sirk (1897-1987), conferma il gusto di Wilder per la dissonanza e la variazione dai soliti spartiti, intesi come stilemi o topoi di genere cinematografico: la salita sul treno di Arianna tra le braccia di Flanagan non ci rassicura e la sua ambiguità è aumentata ai nostri occhi dalla voice over di Maurice Chevalier che parla del matrimonio dei due amanti, necessaria per rassicurare quella fetta di pubblico che non avrebbe mai apprezzato una relazione così spinosa e sfumata.
Ma si sa: quello è un film costruito attorno alla Hepburn, un’attrice che Wilder seppe guidare splendidamente valorizzandone l’eleganza e il candore ma la cui Persona cinematografica, gestita dalla Paramount, non poteva permettersi delle crepe per questioni d’immagine.
In futuro, il regista viennese avrebbe avuto altre occasioni per andare più a fondo, senza intromissioni, nello scavo delle psicologie. L’appartamento (1960), ad esempio, non soltanto è una lezione magistrale di sfumato drammaturgico ma è anche una variante, tanto più incisiva quanto più ‘in chiave bassa’, della critica del mondo corporativo e del capitalismo americano che sarebbe poi esplosa in Uno, due, tre (1961).
In quest’ultimo film Wilder “preme l’acceleratore” approdando ad una critica sociale a scatole cinesi, sovrapponendo perfettamente simboli, riferimenti storici e tecnica narrativa.
Non è infondato supporre che la scelta di un ambiente teutonico l’abbia fomentato: tedesco è lo scenario, quello della Berlino divisa del secondo dopoguerra; tedesco è pure il “nemico” dello scaltro dirigente McNamara (James Cagney) e, per di più, il guastafeste della sua scalata professionale è un giovane comunista della Germania Est, idealista e sprezzante che mette incinta e sposa la figlia svampita di un magnate della Coca-Cola sfuggita al controllo del protagonista.
Avendo per ambientazione una delle città-simbolo della sconfitta e del trasformismo nel secolo breve, il regista manda le sue frecciate al desiderio di ordine esteriore nel mondo occidentale: il ribelle rosso, nato incendiario, muore pompiere con un’identità nuova che lo vede erede di una nobile schiatta mitteleuropea che, ad un americano puro come suo suocero, sembrerà onorevole, perbene e certamente pittoresco. McNamara, dimostrando tutta la sua astuzia al fine di mantenere lo status quo, si rivela geniale e cattura la nostra simpatia per l’energia con cui cerca di portare l’ordine che è più quello del Capitale che non quello borghese; il tutto, peraltro, mostrando come il conformismo e il quieto vivere riescano a coordinare ex-nazisti, capitalisti e giovani comunisti: del resto, quelli che dicono di non avere un prezzo non hanno mai ricevuto l’offerta giusta.
La lucidità di Wilder va anche più a fondo e non permette a McNamara una vittoria completa: certo, l’esplosivo dirigente ritrova la sua famiglia nel finale ma lo spostamento a Londra, tanto sognato, non avrà luogo; il “sorso della vittoria” che gli toccherà nella chiusura del film non è di Coca-Cola ma di Pepsi.
La pellicola si chiude quindi con un colpo di coda avvelenato e Wilder, che non è un decadente di temperamento, dimostra quanto non sia nelle sue corde la critica passiva di ciò che gli era contemporaneo.
Peraltro, questo film recitato e costruito in “prestissimo”, concluso con una canzonatura elegante che fa da calata di sipario, richiama a noi spettatori di oggi, nonostante le profonde differenze poetiche e stilistiche, l’intraprendenza critica e l’energia antibellica di L’esplosivo piano di Bazil (Micmacs à tire-larigot, 2009) di Jean-Pierre Jeunet, regista diversissimo da Wilder ma di cui condivide l’amore per la dimensione umana e affettiva, libera di fiorire oltre il parassitismo che la società e l’economia operano sull’individuo.
Wilder sapeva certamente che non bastano i film a cambiare il mondo e a far prendere coscienza di quanto la società giochi con l’individuo o di ciò che gli uomini fanno ai e con i propri simili.
Nondimeno, ha sempre affinato il proprio sguardo sulle cose, raggiungendo il perfezionamento del suo mestiere di narratore e raccontando mirabilmente le dinamiche più significative del quotidiano che sembravano ammiccargli affinché posasse gli occhi su di loro.


