Setsuko tomba per le lucciole Isao takahata film
Cinema

I vinti di Takahata: Una tomba per le lucciole

I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.

Giacomo Leopardi

Il 29 ottobre è un giorno particolare per chi ami lo Studio Ghibli: è la data di nascita di Isao Takahata (1925-2018), uno dei suoi due pilastri assieme a Miyazaki.

Un omaggio è d’obbligo, soprattutto se si conti il fatto che la critica occidentale e i cinefili non abbiano dato uguale visibilità ad un regista che è allo stesso livello, per motivi diversi, del suo socio e contraltare.

A chi scrive questo articolo piace pensare i due assieme, come fossero i volti di un’erma nel percorso dell’animazione giapponese, dei punti di non ritorno.

Si ha l’impressione, man mano che li si osservi e cerchi di capire, d’essere inquietati, come se avessimo di fronte un’aquila e una tigre che abbiano dedicato la loro vita ad amore totalizzante ed esclusivo, condotto con un’energia bestiale, per tutto ciò che era il loro opposto: le creature miti ed innocenti.

Miyazaki non può che essere l’aquila in questa immagine: tolto il riferimento evidente alla passione per il volo, lui è quello più legato alla fiaba, al fantastico, all’importanza dello spazio come scenario lirico e proiezione dell’interiorità, al ‘volo psicologico e spirituale’ dei protagonisti inteso come trasfigurazione e metamorfosi, soprattutto se femminili o infantili.

La tigre Takahata ha invece scelto la strada di un suo personale realismo e se la fantasia entra nelle sue storie è per meglio rendere lo stato mentale e psicologico dei personaggi, immersi totalmente nel loro periodo storico e legati al Giappone soprattutto rurale, posto sempre in contrasto col moderno.

Questa è una differenza fondamentale rispetto al suo collega, che si estende nella resa filmica della vita quotidiana dei giapponesi, con la loro connessione alla terra, la campagna, il loro particolare approccio alla modernità, il rimando al culto buddhista che così tanto ha scandito la vita della provincia nipponica.

Già sul sito La disillusione ho avuto modo di parlare di Takahata e questo articolo mi dà la possibilità di parlarne ancora, con più vigore, riprendendo però certe opinioni che non sono cambiate nel tempo.

Come scrissi allora: “È stato circa quarant’anni fa che il Giappone è diventato lo scenario definitivo per i (…) film [di Takahata, nda] ma solo dal 1988 questi sembrano darsi una disposizione da struttura modulare: infatti si può perfettamente parlare di “dittico slice-of-life” per Pioggia di ricordi (1991) e I miei vicini Yamada (1999) così come di “trilogia dei vinti” per Una tomba per le lucciole (1988)Pom Poko (1994) e La storia della principessa splendente (2013).

Nel confronto tra i due capisaldi del mondo Ghibli, appare evidente quanto Miyazaki abbia scelto, per sua predisposizione e desiderio di un incontro-scontro diretto, di assorbire spunti occidentali e mischiarli con il patrimonio perlopiù shintoista.

Il buddhismo (…), ha fatto semmai incursione con le preghiere della nonna di Totoro (1988) durante la ricerca della protagonista Mei; anni dopo avrebbe fatto da sostrato archetipico e psicologico per il protagonisti del Castello errante di Howl (2004), come analizzato perfettamente da Dianne Hradsky nel suo blog (https://dhradsky.wordpress.com/).

Takahata non ha sottoposto questo culto a filtri altrettanto forti: il Giappone popolare a cui è così legato, perfino nella resa storica, lo ha portato a rendere quella religiosità con una fedeltà più serrata.

Per iniziare a trattare la trilogia dei vinti, si deve avere in mente questo sostrato religioso, così come il dolore che il mondo o la Storia vuole far subire ai protagonisti: li si vedrà subito risaltati per contrasto come statue di marmo con dietro il buio della nicchia.

In Una tomba per lucciole, la seconda guerra mondiale distrugge infanzie che non potranno affacciarsi all’età adulta; alla principessa splendente sono negati amore ed esperienza; agli animali guerrieri di Pom Poko non è dato di sopravvivere al Progresso.

Tutti i Poteri delle loro storie potrebbero perfettamente sconfiggerli (riuscendoci) ma non fanno mai dir loro che la lotta sia inutile a priori, che tutto sia vanità. Vessati, loro non vogliono rinunciare alla vita: il mondo e gli affetti non sono un’illusione. Che la richieda il Buddha o la Storia, la rinuncia non è gradita.

Tutto questo insieme ha già forma e vigore in Una tomba per le lucciole che è inizio e manifesto della trilogia già citata, il film della svolta per Takahata che inizia a concentrare temi, a comporre un percorso più serrato. È anche un film rivelatore su un tassello fondamentale della sua ispirazione: l’infanzia e le sue ferite.

Per esporre questo concetto, il regista prende spunto dal romanzo omonimo di Akiyuki Nosaka (1930-2015), storia semi-autobiografica dell’autore che risuona totalmente con l’intento di Takahata.

Setsuko e Seita tra i loro genitori in posa per una foto. Fonte: Tumblr.com

È la storia di due fratelli, Seita e Setsuko, figli di un ufficiale della Marina giapponese. Tutto è rivissuto nei ricordi: il 21 settembre 1945, Seita muore per terra nella stazione di Kobe. Poco dopo, la sua anima si riunisce a quella della sorellina, le cui ceneri erano raccolte nella scatola di caramelle fruttate stretta da Seita e buttata da spazzini poco dopo che il ragazzo sia spirato.

Ormai i due non possono più soffrire e prendono insieme un treno, felici di essersi ricongiunti, riassaporando quelle caramelle. Anni dopo, ne La città incantata di Miyazaki, un treno ospiterà la protagonista Chihiro e lo spirito Senza Volto, alla ricerca di una strega buona nella terra degli spiriti.

Durante il loro tragitto, i due fratelli di Takahata ricordano i bombardamenti di Kobe, nel giugno del ‘45, che fortunatamente loro due riuscirono a scampare. Ormai lui è l’uomo di casa e deve proteggere la sorella che ha appena 5 anni: la casa è distrutta, la madre muore per le bombe che arrivano al suo rifugio e la città livellata a deserto dà a noi spettatori i brividi come fosse già un presagio di Hiroshima.

I due non hanno contatti all’infuori di una zia paterna, un capolavoro di grettezza: sente i due come un peso, chiede sempre delle lettere al padre per poterseli togliere di torno, dà a Seita del pigro per non avere un lavoro (che ha perso a causa dei bombardamenti, così come la scuola), prende i kimono della loro madre per comprare del riso, centellina le dosi dei loro pasti. In fondo, dice lei, non danno aiuto alla nazione!

Alla fine, i due se ne andranno, scegliendo un rifugio accanto ad un lago, dove provano a ricostruirsi un quotidiano. Qui esce fuori il lato lirico di Takahata, con il racconto delle loro giornate che vede i fratelli creare in quel loculo una casa nella natura.

Roger Ebert parla delle sequenze strettamente naturalistiche del film come “pillow shots”, delle inquadrature che portano ad una sospensione narrativa: è un ricordo della poesia giapponese e del cinema di Ozu, entrambe forme d’arte in cui la narrazione cede senza problemi il passo alla contemplazione per rendere un’esperienza sensoriale.

Setsuko e Seita con le lucciole catturate

Come vertice di questa tendenza, la scena delle lucciole è significativa: i due ne riempiono il rifugio e creano un cielo stellato sotto cui addormentarsi. In questa sequenza s’intreccia il presentimento della morte dietro l’angolo per la nostra conoscenza della trama; il sostrato da tragedia di doppio-suicidio ammesso dal regista, con riferimenti ai testi di Chikamatsu; la somiglianza del loro rifugio ad una tomba (che sembrerebbe a noi occidentali un loculo di Cerveteri); infine, la natura stessa delle lucciole: sono creature dalla vita breve, come i due protagonisti.

Infatti, il cibo scarseggia e Seita comincia a rubare nei campi. Picchiato ed umiliato, comincia a crollare mentre Setsuko che lo desidera accanto inizia a deperire per malnutrizione.

A nulla servirà prelevare gli ultimi soldi della madre e rubare nelle case bombardate: Setsuko raggiunge il suo limite in una scena che è già presagio della morte di Seita in stazione.

Il suo Onii-chan (fratellone) le dà l’ultimo saluto con un funerale degno, andando verso la propria morte avvenuta il 21 settembre del ‘45. I due spiriti, dopo che la loro storia crudele s’è conclusa, guardano dalla collina sopra la loro ultima casa la nuova Kobe ricostruita.

L’aggressività narrativa di Takahata è pari solo all’affetto per i suoi personaggi: Una tomba per le lucciole ci appare come un film sfibrante, come se il regista avesse avuto in mente di far durare un imprinting per poco più di due ore.

È disperato perché è in sé una confessione: Takahata percepisce la distruzione dell’infanzia e dell’innocenza come si faceva col lutto nelle comunità arcaiche: uno scandalo, che per lui è lo scandalo.

È uno sfodero di energia che investe con la sua ricerca infinitesimale del tono, del colore, portato a livelli anche più alti col perfezionismo di Pioggia di ricordi (1991).

Se qualche concessione alla fantasia è fatta in questo film si può al massimo trovare nel secondo livello di ricordi (il terzo livello narrativo), dove il Seita vivo (ricordato dal proprio spirito) rievoca momenti felici coi genitori, avvicinati con stacchi che li inquadrano da più lati, come fossero ormai già corpi distanti, di cera, in una personale galleria del passato.

Il sentimento estetico della campagna (e anche del mare qualche scena prima) ingloba ed esprime già in sé le tensioni liriche, anti-narrative dello stile di Takahata, con scenari ben diversi dalle città da Nord-Europa, i prati sconfinati e commoventi, i cieli chiari e vasti di Miyazaki: la felicità per Takahata è sempre astorica ma non ambientata in mondi diversi dal nostro né in un’interpretazione troppo libera dello stesso. Per essere precisi, è meglio dire che la sua sia soprattutto antistorica.

Come si può ben capire, la vena da slice-of-life non viene meno nella triade tragica della filmografia di Takahata: è solo intrecciata con altri motivi che la stimolano e la rinvigoriscono, qui in accordo con le musiche di Michio Mamiya.

Guardato questo film, se qualcuno considererà ancora l’animazione un genere minore, gli si risponda così: che l’animazione è superiore per principio (quando non sia superiore già per il singolo risultato artistico) perché non limitata dalla passività fotografica; che la possibilità creativa nell’animazione è aumentata esponenzialmente col lavoro dell’immaginazione e della sapienza tecnica compositiva e disegnativa, dando più possibilità espressive al talento dell’artista, con assorbimento immediato della narrazione (fatto di origine orale) nelle componenti estetiche. Tutto questo, peraltro, senza l’ingombro delle componenti teatrali che persistono nel cinema (attori, luci, scene, macchine, scenografie) e che valgono solo nella maniera con cui queste siano trasfigurate o manipolate.

Noi che apprezziamo questi lavori di finissimo cinema animato, denso di arte e lirismo, possiamo essere certi delle nostre convinzioni: come dice Valéry, noi sappiamo perché “abbiamo visto”. La lode va quindi a Takahata nel giorno del suo compleanno, per quella sua ricerca ostinata della perfezione tecnica, del senso esatto del tono, per quei colori limpidi, per le sue campagne, per i sentimenti perfettamente scanditi.

L’ultimo rifugio dei protagonisti, nella calma di un idillio.




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