Jeremias Jordan Nowhere Araki
Cinema

Nowhere

“L.A. is like Nowhere. Everybody who lives here is lost.”

Dark (James Duval)

La frase di Dark (James Duval) all’inizio del film ci dà già il senso dell’ambientazione nel sesto film di Gregg Araki (1959): Los Angeles come non-luogo, limbo pop e spazio vuoto che si esprime attraverso le azioni dei protagonisti, che tentano costantemente di distrarsi o sfuggire al contesto.

Lo sappiamo da Antonioni: è già lo spazio a rendere il limite della vite dei personaggi ma nel confronto tra il regista ferrarese e Araki si noterà che col primo la nullità dell’ambiente comprende tutta l’atmosfera, si espande pure in verticale; Araki, dal canto suo, comprime i protagonisti in un’orizzontalità marcata: le stanze sono scatole, perfino le scene delle spiagge danno l’impressione di stare in un tunnel e non c’è posto per uno sfogo celeste (da intendere pure in senso lato, poetico) nei suoi fotogrammi.

Il vuoto americano, si specifichi, non è quello europeo: le nostre città possono apparire stranianti per la mancanza di un contatto con la Storia, per un’insofferenza rispetto all’ingombranza del passato, per lo stravolgimento o l’abbrutimento di uno specifico contesto; in America tutto è creato da zero, non c’è che il presente come coordinata dallo spirito, totalmente privato di una trascendenza.

L’unica struttura possibile è quella dell’estetica del proprio tempo: Nowhere (1997) ne abbraccia pienamente l’impianto, rendendo i titoli di testa dei testi fluttuanti come quelli di una schermata in standby (fig. 1) o una semplice scena in bagno di Egg (Sarah Lassez) un riferimento evidente (anche se in chiave bassa) ai primi piani dei video musicali anni ‘90, con le loro luci frontali e gli sfondi sfocati per far risaltare il volto (fig. 2).

Titoli testa Nowhere Araki.
1. Titoli di testa
2. Egg (Sarah Lassez) di fronte allo specchio in bagno al confronto con un PP del video musicale delle TLC, ‘No scrubs’.

Il lavoro ambientale in Nowhere non può essere secondario rispetto a quello attoriale: in fondo, parliamo di un film corale di un espressionista, che lascia fagocitare gli spazi dall’interiorità dei suoi protagonisti. Se qualcuno ha potuto accostare questo film a Kids (1995) di Larry Clark per lo spirito, di sicuro ha avuto le mani legate parlando dello stile.

Araki rende la realtà interpretandola con umorismo visivo e drammaturgico, la sua violenza è perlopiù sottile, psicologica, a pari passo con un lirismo partecipativo che collega gli aneliti di Nowhere ai traumi di Mysterious Skin (2004): il suo tatto lo distanzia dalla brutalità di Clark che ha come sostrato un’esperienza da fotografo.

Nel raccontare la vita di un gruppo di adolescenti losangelini, Araki ha come suo alter-ego Dark (James Duval, fig. 3), ragazzo ingenuo, ombroso, sensibile e bisex come ogni vero personaggio arakiano che si rispetti. Ha una ragazza, Mel (Rachel True), bella e promiscua, che non vuole avere una relazione seria e un gruppo di amici che passano il tempo tra sadomaso, feste e giochi con l’ecstasy. L’unica persona che gli faccia realmente battere il cuore è il pallido e mite Montgomery (Nathan Bexton), che sembra pronto per andare all’altro mondo.

La sua L.A. è il regno della Noia e per cogliere il senso di questo concetto si potrebbe guardare giusto oltralpe e pensare al Baudelaire della prefazione a I fiori del male (Au lecteur) o a quello di Une martyre: potremmo dire davvero che le vie dell’Arte creano ponti sui mari e smuovono montagne.

3. Dark (James Duval) in una scena del film.

Un simile accostamento non è svilito dalla distanza temporale o fisica: è giusto sottotraccia, perfino involontario, visto che Araki ha gli occhi fissi sulla realtà e sul cinema, non sui testi.

Ma quanto sono simili agli indolenti baudelariani questi adolescenti che per provare qualcosa si lanciano in rapporti sadomaso come Bart (Jeremy Jordan, si veda immagine di copertina), sognano di essere dominati come Dark all’inizio, di fare sesso a tre come Mel o si passano l’ecstasy buttando giù le pillole con la birra!

Di certo danno l’occasione per mettere in mostra lo humour del regista nei climax dell’orgasmo, come accade a Shad (Ryan Philippe) a letto con Lilith (Heather Graham), in montaggio alternato e accelerato (fig. 4) con sua sorella gemella Alyssa (Jordan Ladd), mentre l’uno urla “Mommy” e l’altra “Daddy” nella missionaria col suo ragazzo, Elvis (Thyme Lewis).

4. Scena dell’orgasmo combinato

Come se non bastasse, lo stesso stratagemma chiude nel finale la scena d’affetto tra Montgomery e Dark, mentre un alieno si fa strada nel corpo del primo e all’altro non resta che assistere all’esplosione dell’amato, venendo inondato di sangue: simulando attraverso la convulsione della paura l’atto della penetrazione sognata e non riuscita, il montaggio prepara al primo piano di Dark che chiude il film, a rimarcare il doppio senso del suo nome.

“Dark” potrà anche voler dire ‘oscuro’, ‘ombroso’ ma basta una storpiatura nella pronuncia per renderlo “Dork”: impacciato, imbranato o maldestro socialmente, insomma uno sfigato.

Araki, pertanto, non scorda l’umorismo in questa scena di sogno infranto ed in questo modo esacerba il lato dolente del film, che mostra ben due suicidi prima di questa sequenza splatter.

Le messe a morte in contemporanea di Egg, (interpretata dalla bravissima Sarah Lassez) e Bart sono delle sequenze splendide, che più testimoniano quanto i protagonisti desiderino una via di fuga: ammaliati nella loro disperazione da un predicatore televisivo, Moses Helper (John Ritter), i due piangono stanchi della vita (fig. 5).

Egg si è fatta ingannare da una star televisiva, che arriva a violentarla: la scena della loro conversazione ha come sfondo il cartone pubblicitario di un paesaggio idillico, lo stesso che si vede a margine dei fotogrammi durante la fuga della ragazza nel traffico, insanguinata e sotto shock. Quando si dice “castello in aria” o “sogno di carta”.

La storia di Bart non è meno triste: la droga ed il sesso sadomaso lo allontanano da Cowboy (Guillermo Diaz) che lo ama veramente, sente di essere ad un punto morto. Non meno incantato di Egg dalla predicazione in TV, si unisce in coro a lei e agli altri fedeli, tra le voci che esclamano fiduciose “We believe”, noi crediamo, immaginando una fuga che solo la morte gli potrà dare.

Egg e Bart in una delle scene più belle del film.

Il loro senso di oppressione è reso da Dark che poco dopo dirà: “I’m only 18 years old and I’m totally doomed”. Non c’è divino in Nowhere se non nell’immaginazione: al massimo, ci saranno alieni da fumetti o film anni ‘50 che pianificano di dominare la terra, inceneriscono delle fastidiose Valley Girls in attesa su una panchina, rapiscono Montgomery per i loro esperimenti.

È il modo pop per definire, con figure diverse dall’umano, il sentimento da “fine della Storia”: sarebbe strano non capire in questo film quanto i suoi protagonisti si sentano ultimi humanorum, giusto per buttare giù una formula da esportare.

Che Nowhere sia uno dei risultati più belli di Araki non ci sono dubbi, così come è chiara la sua natura di magazzino di motivi e figure destinate a ritornare nella sua filmografia, con un’evidente apertura al fantastico.

Che pur nella sua tristezza sia un film piacevolissimo da guardare è evidente: basta notare la direzione degli attori, il ritmo, i colori di Arturo Smith che lavorano in armonia con le scenografie.

La dolcezza di Nowhere non può essere staccata dalla sua malinconia che è in fondo un bisogno di innocenza e completezza: come spesso accade nella vita, le occasioni per trovarle arrivano tardi, stroncate dagli eventi. Spesso non resta che la loro visione simile ad un miraggio, come accade a Dark con Montgomery, a conti fatti più fantasma del desiderio che vera creatura.

Dark (Duval) e Montgomery (Bexton) verso il finale.




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