The Wolf of Wall Street Leonardo Di Caprio
Cinema

The Wolf of Wall Street

Le biografie scorsesiane hanno un tracciato collaudato fin dai tempi di Toro Scatenato (1981): sono tutte storie di un’ascesa, di un eccesso e di una caduta. Lo stile soltanto le distingue in valore, visto che l’ambiente tribale (poco importa se familiare, criminale o sportivo), il senso di amicizia virile e i deliri solipsistici sono le basi comuni di quelle vite e quei racconti.

The Wolf of Wall Street (2013) porta Scorsese nel cuore della finanza americana, quasi volesse rispondere al celebre film (1987) di Oliver Stone dopo ventisei anni, spingendo il pedale della commedia e adattando lo stile alla mente del broker Jordan Belfort (Leonardo DiCaprio).

Il filtro dato dal protagonista porta Scorsese ad un barocco effervescente che si compiace di seguire i propri protagonisti con colori brillanti e saturi, una fotografia splendida di Rodrigo Prieto: in un certo senso, tradisce ancora una volta, con gusto più evidente, la fascinazione del regista per il crimine, salvo poi far rientrare tutto nei ranghi con il racconto dell’orgoglio punito e della disfatta.

Scorsese è il frutto di un cattolicesimo turgido: racconta l’eccesso dei suoi personaggi con trasporto e simpatia per poi ritrarre la mano e solo allora mostrare la sua vera posizione, più vicina a quella del prete che al ragazzo di strada.

Senza dubbio questa sua tendenza non ferma noi spettatori dall’apprezzare il film: ci si sente vicini all’ironia di Quei bravi ragazzi (1990) trasformata in comicità per le scene di sesso, goliardia e “fattanza”, quelle che più permettono a DiCaprio e Jonah Hill di mostrarsi istrioni, gareggiando per l’attenzione del pubblico.

Riusciamo vedere in pieno il talento di Scorsese per la commedia, fomentato dallo script di Terence Winter che conosce New York e sa raccontare il lusso, il successo, la quotidianità sovreccitata che questo comporta ed il cameratismo. Non per niente parliamo dello sceneggiatore de I Soprano e di quella serie sfortunata quanto sottovalutata sotto il segno di Scorsese: Vinyl (2016).

The Wolf of Wall Street, all’interno del percorso scorsesiano, si rivela quindi utilissimo per indicare una vitalità fortissima del regista anziano, resasi centrifuga ed ineguale nei risultati successivi a Casinò (1995).

I fan non strettamente cinefili di Scorsese avranno di sicuro piacere a riguardare un film così gioioso ed energico, così distante dal delirio cristiano di Silence (2016) e dalla forza cupa di The Irishman (2019). Come se poi non bastasse, gli ammiratori del film avranno per molto tempo dei simboli in cui ritrovarsi: il corpo della Robbie (brava e seducente) e l’inno “ufficiale” del film, l’humming di Matthew MacConaughey che va a tempo battendosi il petto.

Leonardo Di Caprio in una scena del film. Fonte: Tumblr.com
  • Questa seconda recensione è stata scritta per partecipare al concorso di Critica ‘Premio Alberto Farassino 2014’. Vinse il terzo posto in classifica.

Oliver Stone è storia lontana: largo a Scorsese, all’iperrealismo sfrenato e la voluttà libertina del suo broker svitato Jordan Belfort. Storia di marlowianamemoria, dove Mefistofele si cela dietro ogni banconota, ogni volto amico, i corpi di donna ostentati con furore sullo schermo, vittime del desiderio di bambini mai cresciuti, ma che per genialità e desiderio morboso di successo arrivano addirittura a superare i protagonisti de The Social Network di Fincher. Quello di Scorsese, però, più che un accompagnamento dei protagonisti, è un pedinamento fatto con passo compiaciuto, qualche volta scaltro, estetizzante, ma feroce al punto giusto: non per niente, per arrivare a conoscere al meglio le bestie, bisogna atteggiarsi come loro, senza sconti. Non è un caso che, anche sul piano recitativo, DiCaprio e Jonah Hill si sfidino per tutto il film per il ruolo di “re della savana”: sono due istrioni che arrivano a miscelare dramma e commedia con una stortura, un minimo gesto facciale, una nota vocale e un mimetismo che farebbe arrossire i camaleonti più esperti. La sua New York non fa da scenografia costante come nei suoi lavori precedenti, ma in compenso troviamo una conoscenza ambientale superba e disinvolta, con luci calde, dominate dal sole e l’afa che la fotografia di Rodrigo Prieto, degno erede del suo predecessore Michael Balhauss, ricrea con armonica stilizzazione, esasperando gli spazi chiusi, riecheggianti le atmosfere espressioniste che Scorsese ama tanto, quasi come se fossero le chicche preferite di un cinefilo che sa ancora come sorprendere dopo qualche -a questo punto- perdonabile inciampo. Attenzione al cast: la seconda New Hollywood è in marcia e non farà prigionieri…

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