Anatahan film josef con sternberg
Cinema

Anatahan (1953): la riscoperta

La femme nue, c’est la femme armée.

Victor Hugo

Il nome di Josef von Sternberg (1894-1969) dirà poco o niente al pubblico moderno, così come quello del suo ultimo film che fu realizzato in Giappone, in uno studio a Kyoto, ispirato ad un singolare fatto di cronaca bellica.

Anatahan (1953, in italiano L’isola della donna contesa) è essenzialmente il diario di una regressione, ispirato all’arrivo fortuito di soldati giapponesi proprio su quell’isola nell’arcipelago delle Marianne, nell’estate del ‘44.

Il materiale era fresco e sembrava fatto per il regista: era la storia del dominio di una donna, attraverso la sola presenza, di ben una trentina di uomini, naufraghi a causa di attacco aereo alleato. Da 31 che erano, tornarono in 19.

Per tutto quel tempo, i soldati installati su quest’isola così periferica avevano rifiutato ogni messaggio contenente la notizia della sconfitta del Giappone, a causa del loro capo che non accettava l’idea della resa e con le buone o le cattive li convinse che fosse tutta una strategia nemica.

Solo le lettere dei loro familiari lanciate dagli americani li convinsero a ricredersi, il 30 giugno 1951. Kazuko Higa (fig. 1), la sola donna nelle loro vicinanze, avvistata una nave, se n’era già andata un anno prima, dopo essere stata la causa di tre morti e continui conflitti all’interno del gruppo.

Era stata lei a scatenare le gelosie dei militari, soprattutto dopo la scoperta che l’uomo al suo fianco non fosse il marito ma un compagno che lei s’era trovata per sopravvivere in quell’isola sperduta, essendo ormai lontana dal vero consorte tornato ad Okinawa.

1. Kazuko Higa con i suoi soccorritori nel 1950

Per trasportare questa storia su pellicola, Sternberg esacerba le implicazioni erotiche del fatto. Tutto quanto è ricostruito in studio, non c’è una traccia di natura nel film, che è fino in fondo l’opera di un regista che ragiona come ai tempi del muto.

S’inizia raccontando l’attacco subìto dai soldati e il loro arrivo alla casa di Fusakabe (Tadashi Suganuma), che ha per compagna la bellissima Keiko (Akemi Negishi). Già dai loro primi sguardi, tutti loro ne sono abbagliati: è naturale, visto che la sua attrice è splendida e ha, in quell’atmosfera, l’aura da autentica vamp orientale.

Da qui, il passo del film si fa lento ma solido per poter rendere gradualmente la degenerazione dei rapporti. In quella foresta interamente ricostruita l’aria si fa umida per gli sguardi di desiderio e vedere Keiko nella sua vasca di legno piena di acqua piovana sotto gli sguardi dei pretendenti (fig. 2) riporta noi occidentali all’iconografia di Susanna e i vecchioni (fig. 3).

2. Keiko (Akemi Negishi) in una scena del film
3. Susanna e i vecchioni, Guercino, 1617

Il voyeurismo sarà uno dei motivi del film: non per niente si tratta di un rapporto di idolatria e di attrazione sessuale, reso estremo dalla solitudine di un gruppo di uomini su un’isola.

S’inizia con le offerte per l’ape regina: Takahashi (Takeshi Suzuki) inizia gli approcci con delle conchiglie, che Keiko potrà usare per adornarsi. Il loro incontro notturno verrà poi ostacolato da Fusakabe, pronto a picchiare Keiko più volte per gelosia.

Si continua con i canti dei militari rivolti alla ragazza, ora chiamata con confidenza Kei-chan; con Senda (“nineteen, with the beard of a man and the brain of a grasshopper”, dice il narratore) che le regala un anello preso da un aereo trovato nella foresta; e infine con le tre morti per il suo possesso, seguite da quella di Fusakabe ucciso dal musicista del gruppo.

Ad un certo punto, avvistata una nave mentre è in fuga dagli ultimi uomini rimasti, Keiko se ne va, aiutata dalla gentilezza di uno dei più anziani dei soldati. Sarà una sua lettera, insieme a quelle dei loro familiari, a far ritornare gli abitanti dell’isola alla realtà.

Il film si conclude con il cammino fiducioso dei superstiti all’aeroporto, mentre il narratore spiega chi andranno a riabbracciare dopo tutto questo tempo. Keiko, che li osserva da lontano con occhi sommessi, vede arrivare con loro i fantasmi di quelli morti per lei.

In una sovrapposizione finale, vediamo il suo volto e l’isola di Anatahan nello stesso fotogramma (fig. 4).

4. Sovrapposizione dell’immagine dell’isola con il primo piano di Keiko in dissolvenza.

La Keiko di Akemi Negishi è la conclusione di un percorso artistico e simbolico centrale per la carriera di Sternberg e sembra quasi essere un’espressione più completa del suo ideale femminile di quanto possa essere mai stata Marlene Dietrich, sua creazione indiscussa: incrementando il suo fulgore e valorizzando Keiko come idolo tra volente e nolente, Sternberg le dona una componente di anonimato ed universalità che le chanteuses o imperatrici della Dietrich non sembrano raggiungere.

Una cosa infatti è rappresentare direttamente un ideale di donna fatale attraverso una donna qualsiasi, esponendo così delle dinamiche erotiche e di potere universali; un’altra è creare un sottotipo da questo archetipo in modo che sia inconfondibile perché leggermente distaccato dalla sua origine, come nel caso della Dietrich.

In ogni caso, il fulcro della sua ispirazione rimane quello della donna come mantide religiosa o vampira dell’uomo, creatura che lo drena di energia: c’è più che il sospetto che qui ci sia un forte ricordo dell’ambiente viennese del primo Novecento, la vera matrice di Sternberg, con i quadri delle languide Giuditte klimtiane, dei cabaret sordidi che sarebbero ritornati in L’angelo azzurro (1930), guarda caso film d’esordio di Marlene.

Anche i giapponesi, in letteratura, non sarebbero stati da meno nel raccontare la donna dominatrice: potremmo in questo caso fare il nome di Junichiro Tanizaki (1886-1945) ma le differenze sarebbero più grandi delle somiglianze.

La donna di Sternberg è femmina fino in fondo, conosce il suo potere e lo sfrutta lasciando intravedere l’istinto e l’animalità, spesso giocandoci sopra. La donna tanizakiana porta il dominio sul piano spirituale: il sesso è la base ma non l’espressione totale del suo potere che porta il suo soggetto ad un servaggio totale, passando dalla mente e dalla contemplazione estetica, solo dopo arrivando ad un contatto fisico. Tanizaki ha saputo prendere da Poe, dilatando col suo talento le capacità della dominazione mentale e psicologica; Sternberg punta di più a vedere l’animale nell’uomo e farlo agire mosso da impulsi elementari.

In questo senso, Anatahan è riuscito. Il regista è un grande direttore di attori ma non perché lui abbia empatia verso di loro: per lui il corpo è un oggetto di cui disporre nella composizione del fotogramma (fig. 5). I movimenti di macchina sono pochi, essenziali: ciò che innerva l’immagine è la luce, insieme all’iperdettaglio della scenografia che frammenta e movimenta con striature o profondità di spazio rigorosamente artificiali la nostra percezione.

Anatahan è un melodramma che ha per regista un entomologo: tolta Keiko che è l’oggetto del desiderio, si arriva ad una spersonalizzazione degli uomini, tutti intercambiabili. Non ha neanche senso imparare i loro nomi giacché la narrazione li vuole come puri istinti, differenziati nel fisico soltanto per dare un’idea massificata delle abitudini e delle reazioni umane in uno spazio così piccolo e concentrato. Si tratta di mostrare più delle api o delle formiche a lavoro che degli uomini.

5. Keiko a lezione dal musicista del gruppo.

Il set è trappola e laboratorio per un cinema d’ambiente, con tutta l’ingenuità del cinema degli albori, visibilissima nelle messe a morte semplicissime, senza segni o sangue, quasi fossimo in un teatro popolare.

A creare una felice dissonanza con i fotogrammi è la voce di Sternberg stesso che fa da narratore: il suo tono letterario, da diario di bordo e resoconto morale delle vicende, accompagna la storia introducendo e spiegando il contesto storico, guardando con distacco da saggio le gelosie e le rivolte dei soldati, sembrando a volte la loro coscienza inascoltata.

E che ironia in chiave bassa dentro quella voce monotona, mentre ci illustra i fotogrammi del periodo che fanno vedere i militari ritornati dalle loro famiglie (fig. 6), a differenza di questi naufraghi eccitati!

6. Frammenti di riprese del periodo.

Il tutto, peraltro, senza doppiaggio degli attori giapponesi: Sternberg soltanto parla inglese, nella sua narrazione in voice off. Mettessimo il film a muto, sarebbe comprensibile lo stesso per la sapienza mimica con cui il regista ha fatto muovere i corpi negli spazi.

Esempio, questo, di un controllo totale, che si dovrebbe imparare per fare del cinema un’esperienza oltre il teatro. Ciò che Sternberg ricercava era proprio questo: il cinema come esperienza pervasiva in cui la luce e la camera possano trasfigurare spazi chiaramente finti, dove solo il regista ha controllo su tutto.

Questo spiega per esempio la preparazione della Anatahan chart (fig. 7), lo storyboard con schemi che pianificavano la durata del film, le sue fasi, i suoi climax ed episodi, le morti contrassegnate da x.

7. Anatahan Chart. Fonte: Mubi.com

Nicolò Vigna dice giustamente che Anatahan è il frutto maturo di un cinema barocco che trova la sua ragione di vita nel continuo ripiegamento su sé stesso. Si può inoltre aggiungere che sia barocco per quell’unione indissolubile tra geometria e ornamento, calcolo e virtuosismo, per quella stessa natura dell’ellisse che è la figura geometrica adatta a rendere questo concetto: un’arte che sente in sé due opposti e li risolve come due fulcri o estremi di una stessa figura, senza mai cadere nella contraddizione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: