Amore tossico film
Cinema

Amore tossico

Forse non ci sono film capaci di rappresentare l’Europa contemporanea come Non essere cattivo (2014) di Claudio Caligari (1948-2015) e I miserabili (2019) di Ladj Ly: la sfida per i cinefili sarebbe pensare a titoli altrettanto capaci di far vedere e capire che cosa sia diventato il Vecchio Continente tra il secondo Novecento ed il primo 2000.

Una pellicola giusta per questa ricerca potrebbe trovarsi sempre nella filmografia di Caligari e sarebbe un’opera di importanza storica ma ‘malata’ (per dirla alla Truffaut), non riuscita stilisticamente a pieno: Amore tossico (1986).

L’Ostia che gli fa da scenario è una terra desolata in cui le pinete sembrano cimiteri: attorno ai protagonisti c’è un senso di morte che è reso tutto già dal paesaggio e rimarcato, sfortunatamente e troppo spesso, dalle musiche superflue o dalle forzature drammaturgiche che s’addensano nella seconda parte e guastano l’insieme.

La prima metà del film è quella che fa veramente brillare i protagonisti, visto che Amore tossico è un racconto corale e troppo spazio, verso la fine, è dato alla storia d’amore di Michela e Cesare, a scapito di tutti i comprimari.

All’inizio, la camera segue con la giusta vicinanza due protagonisti, Enzo (Enzo DiBenedetto) e Chopper (Roberto Stano), che danno al film i primi dialoghi memorabili.

È rimasta di culto la frase di Enzo all’amico che ha speso i soldi per un cono anziché conservarli (‘Ma come, dovremo svortà’ e te pij’r gelato?’): è un primo assaggio di romanesco, che precede i tanti ‘understatement de noartri’ che si susseguiranno per tutto il film.

Con l’arrivo di Cesare (Cesare Ferretti), che porta i due a prendere delle siringhe, si apre la sequenza della prima dose che pare interminabile e si conclude prosaicamente col vomito di Enzo e Chopper.

Chopper, Enzo, Michela e Cesare in una scena del film. Fonte: Tumblr.com

Attorno ai tre amici viene poi descritto il resto del gruppo: Michela (Michela Mioni, premiata al festival di San Sebastián) arrabbiata per la sola rifilatale da Teresa (Clara Memoria), legata ad un pappone; Loredana (Loredana Ferrara), prostituta con problemi d’astinenza ricattata dal laido spacciatore Mario che ha madre e nonna coinvolte negli affari; Donna (Gianni Schettini), travestito che prende roba dalla Thailandia e gode d’essere stato in carcere (‘Certe orge, Cesarì, che neanche m’accorgo de sta’ a rota’).

La descrizione del contesto fin qui è ottima. Caligari usa la camera di Dario DePalma per mostrare e caratterizzare i protagonisti che si perderanno nella seconda parte: questo scompenso è segno di problemi di scrittura che hanno fatto accelerare verso un finale in chiave alta, un po’ pacchiano, che non rende giustizia alle figure mostrate per buona parte della pellicola.

Purtroppo, non sapremo mai dell’esito di Chopper, che s’immagina malriuscito, con la dottoressa Clara (‘Mi risulti proprio ‘na cifra’) né degli inciuci di Enzo.

Caligari perde molto della forza del film già nell’episodio a casa della pittrice Patrizia (Patrizia Vicinelli), presso cui i protagonisti si danno ad un’ennesima sessione di pere.

Col sangue delle siringhe, tutti contribuiscono ad un quadro appeso alla parete: il problema della scena non è solo la musica che vuole sottolineare, grossolanamente, la gravità di quelle immagini in quanto sintesi ed allegoria del film intero, ma anche la battuta data a Cesare (‘Questo sì ch’è ‘n quadro vero…fatto de vita, fatto de morte, fatto de sangue, de sangue nostro’).

Questa frase, che vorrebbe rimarcare l’importanza della sequenza, riesce nell’intento opposto e la svaluta per pedanteria. Il finale fa il resto: Cesare, dopo la morte di Michela e le scene all’ospedale, tra le più vigorose ed efficaci di Amore tossico, torna al monumento di Pasolini per autodistruggersi, corre per tutta Ostia e va verso due poliziotti che lo freddano, facendolo cadere come un Cristo per una scalinata.

Qui non c’è la forza ricercata dal regista ed il simbolismo, più o meno voluto che sia, risulta indigesto in un film che aveva fatto della sua semplicità e fermezza sintattica un punto di forza non solo cinematografica ma anche morale.

Già altri hanno parlato dello studio e della comprensione ambientale che Caligari è riuscito a sfoderare con l’aiuto di Guido Blumir in sceneggiatura e non serve tornarci sopra, giacché le immagini e i dialoghi parlano da sé.

Ma si nota, in questa opera prima, anche la capacità mimetica di Caligari in senso espressionista e psicologico, come accade nelle visioni di Cesare dopo l’overdose di Michela: è un presagio della forza espressiva di Non essere cattivo, altro film figlio di un narratore che sapeva entrare nella mente dei suoi personaggi, non solo seguirli nel modo giusto.

Il film rimane, in ogni caso, l’esempio di una regia che sa permeare la trama ed ogni fotogramma di un affetto grandissimo per i suoi protagonisti e sa darne un attestato definitivo col finale commosso della sua ultima opera, parte finale di un cerchio narrativo ed emozionale che si chiude dopo 32 anni e soltanto tre lungometraggi.

Claudio Caligari sul set. Fotogramma dal documentario ‘Se c’è un aldilà sono fottuto – Vita e cinema di Claudio Caligari’. Fonte: cinematografo.it

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