Cinema

Chinatown

Si deve innanzitutto dire che il cinema sia essenzialmente una serie di riscritture, a prescindere da chi sia l’autore del soggetto (se parliamo di cinema narrativo, ovviamente): dai primi bozzetti o dalle prime battute di sceneggiatura, infatti, si fa partire un processo continuo che solo la fase di postproduzione, tra montaggio e modifiche fotografiche, può far procedere verso una forma più o meno definitiva secondo i gusti del regista.

Va aggiunto a questa premessa che, come avviene del resto in arte e letteratura, si riesce molto spesso ad esprimere senza filtri ciò che è più importante, sostanzioso o caro ad un autore, sia stilisticamente che psicologicamente, quando questi si rifà ad un soggetto non di sua creazione.

La riscrittura di un genere o di un soggetto altrui può portare a due risultati: da un lato, può riaffermare la passività e la mediocrità del regista meno valente; dall’altro può far uscire fuori una forza visiva personale che, convogliata in un canale specifico, risulta stimolata dall’esperimento produttivo perché tutta portata sul piano stilistico ed espressivo, fagocitando la storia che, come sanno tutti i cinefili veri, conta assai poco nella settima arte rispetto all’intento e la forma della visione.

Chinatown (1975), se preso in questa ottica, è un caso felice di riscrittura e rievocazione del noir che, immerso nella visione di Polanski e animato dalla sceneggiatura e la solida drammaturgia di Robert Towne, compie un proprio percorso per arrivare al gotico puro e crudo, svelando i veri intenti del regista.

Non basta però questa premessa a spiegare un film in cui spira un’aria decisamente gnostica, in cui il Demiurgo (interpretato da un inquietante John Huston (1906-1987)) sembra una fusione perfetta tra un Saturno in miniatura (non solo quello di Goya) e certi libertini del Sade, tutti macerati in un’ambientazione da southern gothic.

In Chinatown l’acqua equivale allo Spirito e l’Età dell’oro corrisponde ad una sognata espansione della Città degli Angeli nella Valle, con gioia immensa degli speculatori che comprano le terre svalutate degli agricoltori locali.

Agli albori della L.A. odierna, Jack Gettis (Jack Nicholson) è seguito nella sua perlustrazione da una cinepresa che coglie la Mecca del cinema americano perlopiù con il sole del pomeriggio o nella densità notturna, con pochi, decisi movimenti dovuti perlopiù alla camera a mano.

La grammatica visiva è elegante, asciutta, con uno uso ponderato del fuoco espanso per porre i volti e i corpi in diagonali di prospettiva opprimenti. Inoltre, le sequenze più memorabili sono quelle in assenza di musica, con un uso magistrale del suono naturale che fa aumentare in tensione e naturalezza per la fluidità e la verosimiglianza nella resa dello scorrere del tempo e delle informazioni.

Mulwray sulla spiaggia. Fonte: Tumblr.com

Tralasciando il finale che è un incubo diretto magistralmente con l’oggettività superba della camera mobile, meritano una giusta menzione la sequenza del pedinamento di Mulwray (Darrell Zwerling), l’ispezione sfortunata nel canale, l’inseguimento nell’aranceto, la confessione dell’incesto.

Nota di merito è che questo orrore sia solo narrato, non mostrato in altri modi, per azionare l’immaginazione degli spettatori, amplificando con l’assenza di immagini o flashback il peso della rivelazione e le implicazioni del fatto subito da Evelyn (una fulgida Faye Dunaway) che cerca definitivamente la sua redenzione.

Questo espediente, che carica per ellissi ed evocazione orale, specifica una vena del cinema di Polanski che non è mai mancata nella sua carriera. Si tratta di quella teatrale, a conti fatti quella dominante nella sua opera, al punto da determinare totalmente il suo stile che si è sviluppato in senso tematico e atmosferico ma non strettamente icastico.

Questo si nota anche di più nell’ultima fase della carriera, nella vecchiaia che di solito per artisti, letterati e cineasti è il periodo in cui si raccolgono le energie per non perdere in stabilità e che per lui corrisponde alla brillantezza della messa in scena di piéces come Carnage di Yasmina Reza e Venere in pelliccia di David Ives, ritorni all’ispirazione teatrale che aveva avuto già espressione attraverso Shakespeare (Macbeth) e La morte e la fanciulla di Ariel Dorfman, non contando le sue esperienze di regia per i palcoscenici di mezza Europa.

Come regista, Polanski non è in alcun modo diverso da Woody Allen per l’importanza data al testo e per la creazione di un linguaggio ‘medio-alto’ in cui le immagini seguono e valorizzano ma non superano i dialoghi.

Nondimeno, Chinatown è uno dei suoi film destinati a rimanere nella memoria per lo stile, per il passo temporale della narrazione, per il significato spirituale e sociologico. Pochi film sono così esatti, nella finzione, nel descrivere la dimensione del Potere senza illusioni di moralità puritana, giunta adesso in Europa per infiltrazioni protestanti.

Nella distruzione programmata di ogni certezza, il film descrive la congiuntura di depravazione e possesso senza scadere nel pauperismo o nella critica vaga delle gerarchie sociali. Altro discorso, che impreziosisce il film, è che gli orrori mostrati siano più che realistici e ormai di dominio pubblico, almeno per il pubblico attento ed informato che non si fa più illusioni sulla politica o sulla società (chi ha orecchie intenda).

Allo stesso tempo, è importante constatare che sia normale, in questa ambientazione, la corrispondenza del potere economico e politico con la bassezza più abietta per via di un’analogia che corrisponde all’idea cosmica del regista: nel mondo di Polanski, infatti, il cielo è dominato da un pentacolo rovesciato, nella coscienza che la zona d’ombra dell’uomo si apre in un’infelice congiuntura di tempo e spazio in cui si è capaci di tutto.

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