Cinema

Volvér

The reference of all production at last to an aboriginal Power explains the traits common to all works of the highest art, — that they are universally intelligible; that they restore us to the simplest states of mind; and are religious.

Ralph Waldo Emerson, Essay XII, ‘Art’

Almodóvar è un narratore di talento che mostra i suoi veri muscoli quando si sforza di uscire dai personalismi e dalla contingenza storica. Non è quindi un caso che Volvér (2006) sia il suo film migliore, quello capace di essere così potentemente e densamente iberico e al contempo di essere riproposto, per la sua trama, in qualsiasi cultura e contesto.

Ogni luogo ha storie che raccontano il rapporto tra gli abitanti e i loro morti con tutte le possibili compenetrazioni tra l’aldiquà e l’aldilà e la struttura di queste narrazioni è valorizzata dalla fluidità drammaturgica del principale regista spagnolo di oggi, che gioca in casa.

Il regista non manca inoltre di rimandare costantemente al resto della sua filmografia e c’è chi potrebbe segnalare con piacere, per esempio, al ‘passaggio di fiaccola’ tra la Maura e la Cruz come donna principale del cinema almodovariano; la previsione di una parte della trama di Volvér in Flor de mi secreto (1991, citato nel personaggio della zia Paula, un’adorabile Chus Lampreave); la contrapposizione tra Madrid ed il pueblo, vero cardine che riverbera, sul piano ambientale, la dicotomia tra scetticismo e credenza, presente e passato, polis (città dei vivi) e necropolis (città dei morti, in senso espanso e letterale).

Centrali quanto questo scheletro binato risultano essere le citazioni visive e narrative a miti del cinema passato, a conti fatti rivendicazioni di amore cinefilo e sintonia tematica ed umana di Almodóvar con i suoi miti.

Una citazione ambulante è innanzitutto l’Agustina di Blanca Portillo, Giovanna d’Arco casalinga, quasi una cugina spagnola dell’eroina di Dreyer che è richiamata, come se non bastasse l’aspetto, attraverso i primissimi piani all’interno della TV durante le riprese di un programma di pura telebasura che la sottopone al terzo grado e la umilia, alla maniera dei carnefici della santa d’Orléans.

L’istinto protettivo di Raimunda (Penelope Cruz) verso la figlia Paula (Yohana Cobo), unito allo scenario del ristorante, ci ricorda la dedizione ed il lavoro di Mildred Pierce, protagonista del romanzo omonimo di James M. Cain del ’41 ed interpretata da Joan Crawford nel film del 1945.

In più, il talento canoro della protagonista e l’audizione cui la madre Irene (Carmen Maura) la accompagnò da piccola rievocano Bellissima (1951) di Visconti, mostrato nella televisione accesa di fronte allo stesso personaggio della Maura che si specchia in quello della Magnani.

Queste precisazioni sono importantissime, anche se non solo loro a determinare ciò che Volvér ha di benefico, salutare, penetrante e caloroso.

La conoscenza dell’ambiente narrato, senza alcuna carica eccessiva di cromatismi e di décor, fa spaziare il regista dai colori più vivaci di Madrid al bianco morbido della pietra ruvida intonacata del paese; fa sì che la base del film sia praticamente il primo piano, con pochi dettagli sapienti (ad esempio, il sangue assorbito dagli Scottex) e poche, bellissime carrellate.

Rimangono nella memoria l’introduzione del cimitero ventoso nel paese manchego, Alcanfor de las Infantas, che fa ambientazione opposta alla capitale, in un movimento elegantissimo da destra a sinistra nel prologo, così come quello che parte dalle foto dei genitori di Raimunda e Soledad (Lola Dueñas) fino a mostrare, indietreggiando, le tre protagoniste intente a pulire la lapide nonostante il vento e la sabbia.

A queste introduzioni fanno seguito gli spostamenti atti a seguire Raimunda e la figlia nei loro dialoghi durante le varie camminate, così come accade con Irene e Raimunda più tardi, nella scena della confessione, in un’evidente simmetria studiata per rimarcare i loro ruoli e i piani di discendenza.

Il passo di Almodóvar si fa lento, amorevole. Si sente tutto il calore che è capace di dare per queste donne di popolo che lui libera dai pesi morti con il suo studio delle psicologie e con le geometrie di un melodramma asciugato.

Le caratterizza tutte con lo spessore di cui è capace quando non si lascia prendere dall’ideologia e dai preziosismi, fortissimi nel celebrato Tutto su mia madre (1999) o ne Gli abbracci spezzati (2011), che gli fanno perdere il contatto con il suo naturale slancio per il cuento (racconto inteso anche come fiaba o racconto tradizionale) unito al realistico.

Egli è tanto più artista quanto più si ricollega a ciò che di sano, popolare, ancestrale c’è nelle sue corde e il recente Madres Paralelas (2021), nel suo fallimento, è la dimostrazione di questo fatto. Di quest’ultimo film rimane infatti un’impressione delusa e scadente, perché la volontà di raccontare le nuove famiglie allargate con un tocco di omosessualità prende il sopravvento sul racconto dell’istinto materno e del tema del passato, dimensione da riscoprire attraverso degli antenati vittime del franchismo.

La tomba dei genitori di Raimunda e Soledad. Fonte: Tumblr.com

Almodóvar, questo va detto, è sempre stato centrifugo, sempre pronto a volersi dimostrare attuale, moderno, quando la sua forza era proprio il legame col proprio passato e con le radici popolari iberiche a confronto con la modernità. Soltanto questo sostrato gli dà la forza per trasfigurare il contemporaneo, non tanto la sua cultura di cinefilo o quella da caposaldo della movida madrilena di fine ventesimo secolo.

Volvér, lontano dal bisogno e dalla volontà di provocare, di stupire o di oltraggiare le normalità del quotidiano o della società, giustificati nella misura in cui si inseriscono nel contesto della Spagna post-dittatura, non soffre dei limiti di buona parte della sua carriera.

Non c’è posizione da prendere, nessun limite ideologico da abbattere, nessuna grettezza da aggredire e solo per questo la calma del film può risplendere: è in piena sintonia con i veri intenti del suo autore, le sue spinte interne sono puramente dei fatti isostatici, senza stimoli o pressioni esterne.

Ecco perché qui i valori affettivi, tattili, olfattivi, visivi si sposano e ci accolgono senza stridori; ecco perché tutto il film sembra salutare come un pianto, una risata, un rito per togliere il rimosso e superarlo. Nel nostro Meridione si potrebbe paragonare questo film ad una preghiera ed un’abluzione atti a togliere una fattura tesa ad avvelenare la gioia e la felicità, a gettare nella tristezza e nella malinconia: chi mai dovesse fare questa comparazione non sbaglierebbe.

La ironia del regista, espressa in sceneggiatura, accompagna l’intelligenza visiva, senza mai prendersi di confidenza con la storia e stando a supporto delle attrici che furono salomonicamente premiate a Cannes come gruppo. Stilare una classifica tra loro sarebbe difficile.

Questi discorsi, d’altronde, fanno una figura assai meschina di fronte a questa pellicola, che si chiude nella calma di un ingresso bianco di una casa di paese, allontanandosi con tatto e affetto, grazie ad un movimento all’indietro della camera, da un fantasma che si commuove per l’amore ritrovato.

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