Cinema

Inshallah a boy

  • Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Ciak nel mese di marzo 2024.

LA STORIA — Giordania, 2019. Nawal (Mouna Hawa) è una giovane badante con una figlia ancora piccola, Nora (Celina Rababah). Rimasta vedova improvvisamente, la donna si ritrova con le spalle al muro, avendo di fronte la prospettiva di perdere la figlia e la casa in un solo colpo: il marito, che aveva lasciato il lavoro senza dir niente e la tradiva, non aveva pagato le rate del suo pick-up; inoltre, suo cognato fa di tutto per spingerla a dargli i soldi che gli spettano e che pretendeva dal morto. Affermando di fronte al giudice di essere incinta del marito scomparso, senza averne alcuna certezza, Nawal spera di prendere tempo per risolvere tutti i problemi insorti nella sua vita.

L’OPINIONE—«Non credo che il film riguardi soltanto la società giordana. Affronta le disuguaglianze e le violenze imposte alle donne in tutto il mondo. In Giordania affronto questa disposizione della Sharia, ma potrei fare un film in Europa e parlare del divario salariale. Su scala globale, ci sono molte regole e leggi che fanno sì che le donne si sentano inferiori, ed è questa l’ingiustizia che ho voluto denunciare»: così descrive il film Amjad Al Rasheed (1985), che ha portato Inshallah a Boy alla ribalta grazie al passaggio in vari festival internazionali europei (Semaine de la Critique di Cannes e Festival di Salonicco), asiatici (Golden Rooster Film Festival in Cina) e americani (Mystic Film Festival). Non sono mancate lodi di rilievo, specialmente per la protagonista Mouna Hawa che ha vinto ben cinque premi come miglior attrice protagonista, ma di certo un grande invito alla visione è stata la candidatura all’Oscar come opera rappresentante della Giordania. Il film brilla per la sua attenzione alle dinamiche familiari e alle pressioni psicologiche e culturali, senza dimenticare lo scandaglio psicologico della protagonista, le cui paure sono giustificate ed amplificate dal fatto che l’indipendenza decisionale ed economica non siano mai state nelle sue mani: la responsabilità e la libertà sono per lei una scoperta, qualcosa di spaesante e il regista riesce perfettamente a mostrare i suoi timori e le sue impreparazioni di fronte ai rischi che le si presentano davanti. Meno coinvolgente è invece la sottotrama dell’aborto di Lauren, nipote della donna assistita da Nawal, in cui la protagonista rimane coinvolta. La storia avrebbe meritato una trattazione indipendente e in rapporto con la trama principale pare troppo costruita, in tutto e per tutto, come rovesciamento della situazione di Nawal: per questo pare allo spettatore meno naturale e spontanea del dovuto, senza peraltro dare al film delle modifiche significative. L’obiettivo era certamente quello dimostrare che, benestanti o povere, le donne non scappano alla violenza del mondo familiare e della cultura descritta, ma forse queste due storie avrebbero dovuto specchiarsi meglio attraverso film distinti, componendo in questo modo un dittico.


SE VI È PIACIUTO GUARDATE ANCHE… Il pappagallo (2016), corto dello stesso regista, per conoscere i suoi precedenti risultati cinematografici.

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