Fotogramma dal film anime nere (2014) di Francesco munzi. Fonte: Raiplay.it
Cinema

Anime nere

Si direbbe che la Calabria, il cui suolo si agita spesso, riposi sul fuoco dell’inferno e che ogni scossa di terremoto vomiti sulla sua superficie una legione di demoni.” – Questa citazione, ripresa dai diari del De Tavel, occasionale cronista francese, sotto tutte le croste dello sciovinismo francofilo e bonapartista, mostra una verità più volte ripresa come canovaccio nella descrizione del Sud Italia, che costantemente diventa parabola di disordine, di un degrado e di una lontananza che le epoche e i governi – Tomasi di Lampedusa docet – non possono cancellare. Un Eden che diventa Pandemonio, dove alla bellezza decantata dai poeti classici, al fascino esoterico derivante dalle profonde radici orfiche della terra, si è sostituito l’abbrutimento lento e vergognoso delle cose e dello spirito. La serenità di una Milano dove il perbenismo e il senso di perfetto decoro borghese dell’inizio collide inevitabilmente con uno spirito puro, distruttivo quanto creativo delle origini, di questa Magna Mater dal sapore dionisiaco che infonde sulle sue creature un vento di violenza che insegna loro a stare al mondo sotto il segno di una condotta arcaica, brutale, animalesca, ma tradotta malamente dall’impurità umana nel piacere dell’atto distruttivo in sé, nella mistica del diritto del più forte. È in questa corruzione ormai avviata che Munzi coglie e cristallizza con un tocco limpido e solenne i protagonisti. I rapporti di questa distopia mafiosa funzionano come i meccanismi sociali di un regno shakespeariano, forse più appartenenti alla sfera d’azione di un King Lear sull’orlo del collasso piuttosto che di un Macbeth che tenta ancora la sorte usando la profezia delle tre streghe come trampolino di lancio. Ma qui non ci sono profezie: il pubblico sa già come finirà. Non era forse così che funzionava la tragedia greca? Noi sappiamo che la morte sta per incontrare i protagonisti fin dal primo momento. Noi aspettiamo solo che il mito ritorni eternamente sulla scena, che le loro passioni li travolgano tutti come una ruota in caduta libera. Non esistono buoni e cattivi, ma forti e deboli e i ruoli si possono solo scambiare, mai fissare. Nelle prime scene Luigi spinge gli altri a sacrificare per goliardia gratuita un capretto, simbolo di innocenza; inevitabilmente, verso la fine lui diventa una delle necessarie vittime sacrificali della sua stessa guerra, quella che ha distrutto l’amore, gli equilibri tra i suoi fratelli secondo uno schema che sembra dettato da un Fato dalle parvenze karmiche. Un discorso del genere sarebbe stato adatto per un romanzo di Thomas Hardy. In effetti, a chi assomiglia Rocco se non ad un “Jude l’oscuro” del Sud Italia ed il buono, virtuoso Luciano se non ad una Tess d’Ubervilles che cerca la purezza laddove l’abisso ingoia tutto e tutti? L’Aspromonte diventa il Wessex, la Tebe maledetta di Eteocle e Polinice, narrata prima con le parole di Criaco e poi con gli occhi di Munzi, che sanno come scrutare a fondo nel cuore delle cose.

Recensione vincitrice del primo premio sezione Young Adult al Premio Alberto Farassino nel 2015

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