Fotogramma di Lo zio Boonmee che ricorda le vite precedenti fonte : Tumblr.com
Cinema

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Questo film è stato una delle Palme d’Oro più discusse dei primi 2000. Fu la giuria capitanata da Tim Burton a dargli il massimo premio al Festival di Cannes nel 2010, portando un orientale, già amato dai cinefili accaniti e i perlustratori d’Asia su pellicola, alla vittoria: parliamo del thailandese Apichatpong Weerasethakul (1970), che s’era fatto un nome col suo precedente Tropical Malady (2006), vincitore del Premio della giuria nello stesso festival.

Dopo quel film culto, Weerasethakul era tornato al festival della Costa Azzurra con una storia di reincarnazioni e trapassi tra Uomo e Natura. Tornava con lui il paesaggio thailandese ad occupare lo schermo in piani lunghi e lunghissimi, iniziando con i colori serali di una campagna con un bue che tenta di allontanarsi dal padrone.

È questa la prima sequenza di Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti (2010), in cui il protagonista non ha, ironia della trama, una percezione esatta dei suoi vari passaggi sulla terra: siamo noi spettatori a vederle in un’esperienza condivisa, con salti tra presente e passato (tempi che sembrano fondersi nel verde thai).

Dopo questo incipit, vediamo lo stesso Boonmee (Thanapat Saisaymar) accompagnare in macchina la cognata Jen (Jenjira Pongpas) ed il nipote Tong (Sakda Kaewbuadee) verso la sua campagna, che già si potrà ammirare poco dopo in splendidi campi fotografici in piena luce, con l’immancabile sfondo della foresta.

Paesaggi simili, soprattutto nel blu tenero ed omogeneo delle scene notturne, li avremmo trovati nella Nuova Zelanda di Lezioni di piano (1993) di Jane Campion, con le luci di Stuart Dryburgh, ma all’interno di un’opera ed uno stile dall’impianto letterario e con maggiore raffinatezza stilistica.

Per di più, in quel film il lato spirituale è solo un fatto di ‘aura’ e non di compenetrazione vera e propria come accade in Boonmee: è solo sul piano paesaggistico che è possibile creare un accostamento tra le due opere.

Huay che veglia sulla sorella Jen. Fonte: Tumblr.com

L’unicità del film esaminato in questo articolo, peraltro, non è stata ancora trattata. In questo ambiente densò di sentori di aldilà, Boonmee si avvicina alla morte e arrivano, attirati dal suo trapasso imminente, la defunta moglie Huay (Natthakarn Aphaiwong), sorella di Jen, ed il figlio scomparso Boonsong (Jeerasak Kulhong), trasformato in uomo-scimmia dall’accoppiamento con una delle creature della foresta, vista di sfuggita in fotografia e seguita nella selva.

Questi fantasmi e i cari viventi accompagnano il protagonista fino al suo ultimo istante, che giunge in una vasta caverna che il regista ci fa contemplare dapprima con la camera a mano andando allo stesso passo dei protagonisti e poi con il ritorno alla camera fissa.

Dopo aver fatto vedere dei cristalli che sembrano ricreare il cielo stellato per il rimbalzo della luce delle torce, si vede infine uno squarcio nella roccia al di sopra dei personaggi che attorniano Boonmee, quasi fosse un canale per far fuoriuscire e rifluire nella Natura l’anima del protagonista.

Attorno a questo fulcro il regista ha legato altre sequenze che fanno da strade parallele alla trama centrale, alcune con risultati stranianti.

La parte più bella, a metà del film, è il racconto della principessa e chi ama il mito greco sarà sensibile di certo a questa sezione del film.

Ad un certo punto, nella foresta, compare una lettiga diretta verso una cascata. Al suo interno, una principessa sfigurata che di fronte alle acque piange, cantando, la bellezza perduta ed il fatto che il suo amato non la desideri per ciò che è ma per il suo rango.

A rompere la sua solitudine arriva uno spirito del laghetto sotto la cascata, un pescegatto, che risponde al suo desiderio più grande. ‘La tua bellezza incanta’, le dice seducendola, dopo averle mostrato il suo viso di una volta in un riflesso magico.

Quando lui non si fa più vedere, lei entra nel lago, offre i suoi gioielli come offerte, si distende sulle acque e si concede. La scena dell’amplesso, fatta di primi piani sul volto di lei e sul pesce, degno parente asiatico del nostro Zeus metamorfo, è un incanto.

Non da meno i movimenti dell’acqua colti dalla camera immersa, mentre i gioielli cadono sul fondo e i pescegatto agitano i flutti.

Questa sequenza, però, è su una frequenza diversa rispetto al resto del film, tutto giocato in chiave bassa. Il regista ha puntato volontariamente ad una grammatica perlopiù tesa a ricreare ritmi sospesi, aiutato alla camera fissa, sul contenimento espressivo degli attori, la lentezza dei movimenti che riescono perfettamente a creare il sentore di un’atmosfera che è l’ambiente adatto e la forza vitale dell’opera.

La principessa nella cascata. Fonte: Tumblr.com

Nondimeno, non si possono non sentire delle note fuori posto nel suo spartito. Innanzitutto, il personaggio del figlio non sembra essere così necessario come quello della moglie e pare perdere di spessore una volta che il suo corpo scimmiesco, dovuto alla mutazione, è mostrato in piena luce.

Tassi di Cineforum ricorda le parole del regista scrivendo, in relazione a questo personaggio, di una citazione ‘dell’horror thai d’antan’, così come per le altre creature simili nella foresta; detto questo, è chiarissimo che la scelta di mostrare questa creatura ibrida dipenda soprattutto dalla voglia del regista di far vedere la familiarità di Boonmee con gli spiriti del luogo, dovuta alla sua cultura di origine.

È da notare, poi, che un simile personaggio avrebbe meritato una scena a sé stante, un contesto proprio in cui interagire col protagonista: magari nella foresta e non nella scena della cena, mantenendone la visione come all’inizio, con la sola silhouette nera e gli occhi rossi che avrebbero stimolato la fantasia dello spettatore e dato spessore al personaggio.

Forse questo avrebbe discordato con gli intenti del regista che vuole mantenere un rapporto diretto, intimo e familiare, 1 ad 1 tra la creatura e gli umani ma non si può fare a meno di pensare che ci sarebbero state modalità migliori per l’esposizione del racconto del figlio e della sua figura.

Questo approccio letterale usato nel film sarebbe stato magari più adatto in una favola strictu sensu, in un piano specificamente letterario.

Verso la fine poi, abbiamo le foto dei soldati e della cattura di un uomo-scimmia, seguite da quelle di un gruppo di adolescenti intenti ad assaltare e fotografare un coetaneo.

Tutte le immagini scorrono mentre Boonmee parla di un sogno riguardo al futuro, in cui la gente dal passato è annientata da un fascio di luce e dalla proiezione delle scene della loro vita. Una parabola sul controllo del visibile e della memoria (sempre un problema di immagini) che si innesta come fondo sonoro di rappresentazioni statiche che straniano dal flusso del film e che avrebbero dovuto avere uno sviluppo a parte.

L’ironia politica di Weerasethakul sembra prendersi di confidenza con il lato intimo del film e non lo valorizza: il che mostra quanto il regista sia meno legato al tema spirituale di quanto sembri. Quelle sequenze avrebbero trovato miglior posto in altro lavoro, magari un’installazione, film narrativo o lavoro di video-arte.

Infine, abbiamo la sequenza dello sdoppiamento finale nella camera d’albergo. Morto Boonmee, il nipote Tong si doccia nella camera d’albero dalla zia Jen. Uscito fuori dal bagno, vede sé stesso, la zia e la cugina sul letto, intenti a guardare la TV, ignari del fatto che lui e Jen siano usciti.

Discorso sull’ipnosi causata dalle immagini? Riferimento alla meditazione, guarda caso in occasione di una scena di pulizia fisica che rimanderebbe a quella spirituale? Occhiolino ad una pratica, insomma, che permette di mettere a nudo l’Io, osservarlo distaccatamente e metterlo in prospettiva, col massimo dell’ascesi e dell’autoanalisi? O semplicemente un gioco di efflorescenze spirituali nel mondo della trama, dopo che la rivelazione (la comparsa degli spiriti) è avvenuta?

Il finale resta aperto, con le sue domande pronte ad accogliere le nostre risposte e suggestioni.

Resta il fatto che Boonmee sia un film, lasciati i suoi sbandamenti, con un fascino fortissimo, che non si fa atrofizzare dalle tensioni intellettuali, più ‘studiate’ del regista. Altrimenti, non avremmo le tenere scene tra Boonmee e Huay che si confessano il loro amore in un campo lungo delicatissimo, nella stanza di lui; la visione dei paesaggi thailandesi che sono dei protagonisti almeno quanto Boonmee; la sequenza della principessa che è raccontata come il più bello e semplice dei sogni, col solo commento sonoro della cascata.

Una partitura musicale non avrebbe mai raggiunto quell’effetto. La Natura stessa ha valorizzato il lato migliore dello stile di Weerasethakul, quello scevro da cerebralismi e che fa vedere la vita come fossimo dentro l’acqua.

Boonmee e Huay. Fonte: Tumblr.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: