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Cinema

The human voice

L’incontro definitivo di Almodóvar con Cocteau era scontato quanto quello tra Visconti e D’Annunzio, come già osservato giustamente da altri. Non si deve ignorare però che l’autore de La voce umana abbia lasciato un segno così profondo nel regista di Volvér, già dagli anni dei primi imprinting cinematografici, da causare la riemersione continua del soggetto come un fatto automatico, fisiologico, per tutta la carriera del ‘Pedro nacional’.

Per il giovane Almodóvar La voce umana deve essere stato un grande evento cinematografico, più che un fatto di testo. Certamente stiamo parlando, a livello tecnico, di teatro filmato, la forma più basilare di cinema.

Ciononostante, l’effetto e la fascinazione del volto di una grande attrice, capace di trapassare il mezzo, fa dimenticare la passività della camera e la mimesi cui la maggior parte del cinema è tuttora relegata.

Sfuggire alla sciatteria, nel caso di questo cinema basilare (occhio meccanico -> ripresa -> profilmico), è una legge ma non c’è una regola per arrivare al puro sguardo, alla dimenticanza della tecnica che ci trasporta nel flusso delle immagini.

Il set-appartamento del film. Fonte: Tumblr.com

Con The human voice (2020), come accade con Von Trier ed il suo Dogville, Almodóvar spinge il pedale sul concetto e sulla tecnica del teatro filmato.

Ha sentito profondamente che l’appartamento della piéce di Cocteau, da cui derivano quello che rinchiudeva la Magnani in L’amore (1948) e l’altro in cui si muoveva la Bergman nella versione di Ted Kotcheff (Rambo), altro non è che un carcere della mente: La voix humaine potrebbe essere chiamata L’état mental (lo stato mentale).

Questa impressione deve aver aiutato la sua profonda comprensione del testo e alimentato l’importanza, fin dai primi film, del décor nelle sue storie.

Giocando a carte scoperte, con un set esposto completamente alla camera dentro un teatro di posa, Almodóvar equipara la ‘messa in scena’ filmica alla messa in scena del quotidiano: Tilda Swinton, che nel film interpreta un’attrice senza nome, finge di star bene al telefono col compagno che l’ha lasciata, negando la rabbia, le pillole ingerite, la solitudine.

Solo con queste basi il film sarebbe una trasposizione senza inventiva del testo, non fosse per la riduzione delle battute, l’attenzione ai gesti, l’aggiunta della scena iniziale in un negozio di ferramenta ed il ribaltamento totale del finale.

La Swinton di THV passa attraverso una crisi di nervi rimandando alla Pepa del film culto di Almodóvar del 1988. Il suo personaggio si rivela così una sorella minore di quella doppiatrice madrilena, lasciata dall’amato in un’atmosfera surreale: la capitale spagnola, ricostruita negli studi Barajas (salvo qualche parte in esterni), sembrava uscita dalla fantasia di Billy Wilder ed Hawks ubriacatisi in Spagna.

Lo scenario era finto anche allora: lo si vedeva soprattutto dal balcone (elemento ritornato anche in questo corto) che ci riportava al cinema degli anni ‘50.

Sempre in quel film di 33 anni fa, la protagonista provava a dar fuoco al suo appartamento. Essendo però lontana dalla Irene di Volvér, altro pilastro della carriera di Carmen Maura, Pepa non arrivava fino in fondo in questo primo tentativo di sbarazzarsi del passato.

L’incendio infatti veniva sedato e il film si chiudeva con l’addio senza rancori al suo Iván. THV sembra però voler chiudere i conti con quelle nevrosi del passato cinematografico del suo autore.

Sequenza dell’inizio nel negozio di ferramenta. Fonte: Tulmbr.com

La Swinton del film, portata all’estremo, esprime l’odio con accettate al completo dell’amato come se colpisse un totem; modernissima, s’esaspera per la linea interrotta, usa air pods, beve caffè Nespresso dalla macchinetta, confessa il suo amore per poi reagire e capire: anche lei può dire ‘No’, sfuggire all’idea dell’amore che è una storia raccontata a sé stessi, ‘uscire da sé stessa’ e dal suo carcere.

L’appartamento, stavolta, prenderà fuoco per davvero: ha un che di soddisfacente vederla sorridere mentre quel castello mentale brucia, per poi uscire dagli studi, proprio mentre i pompieri entrano per sedare le fiamme.

In più, finisce per prendersi pure il cane.

La voglia di fare i conti, questa volta di petto, con Cocteau, porta Almodóvar a ragionare su sé stesso e le sue donne. Arriva così ad un film concentratissimo dove tutto è giocato su dettagli, PP, PPP, campi a figura intera e poche carrellate.

La composizione ricchissima dell’allestimento non fa che rinvigorire il senso di sintesi di un corto che ride dei deliri d’amore e rifiuta la mistica del dolore in cui è facilissimo cadere, soprattutto con un testo come quello di Cocteau, se lo si tratta con mani inesperte.

Cosa di non poca importanza è l’aver visto la sofferenza d’amore come un sonno, un’incoscenza, come indicato dalla Venere dormiente della Gentileschi nell’appartamento-set dato alle fiamme.

Il regista è arrivato, THV ne è la prova, ad un approccio lucido che lo allontana dal calore di Carne tremula e Volvér. L’aria rarefatta di questo corto ci porta alla cerebralità dei suoi inizi, rinvigorita dall’esperienza.

Citando Mondrian, si compiace di lavorare con tinte piatte che movimentano un film fatto per essere ripensato, che non si apprezza subito se si rimane legati alle messinscene classiche del testo d’origine.

Questa lucidità più matura, fredda e astratta è molto più sentita dell’energia che sospingeva Dolor y gloria, lontana dai compiacimenti centrifughi della prima fase della sua carriera, più valida forse come magazzino di idee che per i risultati ottenuti.

L’addio al passato col rogo nel finale. Tumblr.com

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