Cinema

Blonde

Non è certo un film biografico il Blonde di Andrew Dominik che ha fatto discutere i critici alla 79a Mostra del Cinema di Venezia, visto che in questa pellicola la vita della Monroe è usata solo come mezzo per parlare della Fama e del sistema cinematografico con tutti i suoi aspetti più distruttivi. Inoltre, durante la visione, si fa forte questo sospetto: se il regista, per narrare la vita di una sconosciuta o di una donna d’invenzione, avesse concepito in fase di sceneggiatura una trama simile e l’avesse messa in scena con un’identica energia stilistica, il film non avrebbe avuto il suo risalto promozionale e il suo successo di pubblico.

Dominik ha chiaramente preso lezioni importanti da Mulholland Drive ma altrettante dal cinema horror, come già notato da Mark Kermode che accostò il film a Nightmare on Elm Street di Wes Craven; infatti, Blonde risulta più comprensibile solo se posto in questo filone cinematografico.

In un contesto di assoluto perfezionismo tecnico e di mimetismo totale con l’estetica dei tempi ricreati (per via della resa perfetta delle atmosfere delle foto della Monroe e dei set delle sue pellicole), l’asse di questo film compiaciuto è la mancanza affettiva infantile, oggi nota popolarmente come “daddy issue”, di Norma Jean Baker: l’Io di base della protagonista arriva a creare Marilyn suo malgrado, come se questa fosse un’eggregora che gli dona il successo parassitandolo, gettandolo in pasto alle tigri dell’industria, dissociandolo dalla realtà, distruggendo ogni volta la prospettiva di una famiglia o quantomeno di un’uscita dalla solitudine.

Lo psicologismo pedante del film non va a favore del lavoro nel complesso: sono piuttosto la duttilità di Ana De Armas e la tecnica registica, magica nelle transizioni tonali e di montaggio, ad essere memorabili.

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