Cinema

Gli spiriti dell’isola

Più che sull’amicizia, ‘Gli spiriti dell’isola‘ (or.: ‘The banshees of Inisherin‘, 2022) è un film sulla provincia, sulla noia e sul vuoto pericoloso delle ventiquattro ore di ogni giornata.

Irlanda, 1923: il vecchio Colm (Brendan Gleeson) decide di non parlare più al suo vecchio amico Padraic (Colin Farrell). L’unica spiegazione che gli offre è quella di non voler più avere a che fare con lui, considerato troppo sciocco e noioso. Rigettato, Padraic si rattrista e tenta di tutto per riallacciare i rapporti, venendo continuamente respinto.

Colm ha ambizioni musicali, spiega a Padraic che nessuno è stato mai ricordato per la gentilezza ma solo per aver lasciato qualcosa dietro di sé. Stanco di essere avvicinato senza sosta da colui che vorrebbe rigettare, il musicista di Inisherin si taglia le dita della mano e le getta contro la porta del suo ex-confidente, scatenandone poco a poco la reazione violenta.

Non meno problematici sono gli altri abitanti dell’isola: la sorella di Padraic, Siobahn (Kelly Condon), sceglie di andarsene oppressa dalla dalla bassezza morale ed intellettuale del suo ambiente; Dominic (Barry Keoghan), ragazzo disadattato del villaggio che la ama, è oppresso dal padre poliziotto, immondo sotto ogni punto di vista; ci sono poi delle signore impiccione ed una vecchia che assomiglia in maniera particolare alle banshees della tradizione, gli spiriti femminili che annunciano la morte agli irlandesi o agli eroi dei cicli dell’isola.

Il problema principale del film è nella caratterizzazione dei protagonisti, che amplifica tutte le altre imperfezioni della pellicola. Il personaggio di Gleeson è troppo poco messo a fuoco, quello di Farrell troppo seguito e reso troppo ingenuo. La premessa stessa del film risulta essere troppo forzata: perché mai Colm dovrebbe smettere di parlare proprio col suo amico di una vita, accusato solo di essere un sempliciotto, quando nessuno degli abitanti dell’isola emerge per bonomia, cultura o un qualche interesse artistico?

Dietro il bisogno di pace, silenzio e concentrazione di Colm non si avverte un senso di vera tensione artistica o un peso interiore: tutto sembra una posa, giacché è assai facile, in una provincia come quella rappresentata, sentirsi qualcuno quando si è gli unici a portare avanti una determinata passione, un mestiere o studi specifici.

Nulla giustifica la mutilazione volontaria del violinista, né la determinazione del regista e sceneggiatore McDonagh di rendere così ottuso, in un’ostinazione aprioristica, il personaggio di Farrell, disperato per il fatto di non aver nessuno con cui passare il proprio tempo. Per tutti questi motivi, la violenza del film diventa più un compiacimento estetico che un bisogno espressivo sentito, generato dalla drammaturgia del film e dallo scontro delle psicologie.

I comprimari risentono di queste mancanze perché essi stessi riempiono i vuoti della trama senza colmarli realmente: sono fatti per darci delle impressioni pittoresche di caratteri provinciali e questo è spia di una lontananza sostanziale del regista dal mondo contadino che vorrebbe descrivere.

Nelle corde di McDonagh, drammaturgo più che regista di cinema nel senso profondo della parola, non rientra assolutamente il racconto del sovrannaturale, del sospeso, del metafisico o del fiabesco: il riferimento agli spiriti annunciatori di morte è quindi sprecato perché non integrato a pieno nel conflitto principale, è una nota di ‘colore locale’ e nulla più.

Una critica eccellente di Mark O’Connell, pubblicata su Slate.com, è entrata anche più nello specifico e ha analizzato il film cogliendone i legami con i canoni stereotipici nella caratterizzazione dell’Irlanda da parte del mondo britannico e londinese, vere matrici culturali di McDonagh: il mondo popolare irlandese sarebbe, per molti autori forestieri e anglofoni, un contesto di gente ferina, legata al folklore, dalla cui eccentricità scaturirebbe la violenza o l’emersione dell’Assurdo dalle pieghe del quotidiano.

Notati non solo da O’Connell, peraltro, sono i paralleli poeticizzanti e posticci, assai espliciti nel film, tra la lite dei due amici e la guerra civile irlandese: i colpi di cannone dell’isola principale sono udibili fin dalle spiagge di Inisherin, quasi creassero un riverbero, un riflesso del conflitto più ridotto in attesa di esplodere.

Nulla però fa pensare che questa correlazione tra le lotte degli irlandesi e quelle tra i due personaggi principali sia giustificata: la stima tra i protagonisti, ai nostri occhi, sembra essere stata non solo univoca ma anche un espediente per passare il tempo, dal tempo stesso logorato; non ha assolutamente una gravità che le permetta di compararsi, su un piano astratto, al conflitto dell’isola principale.

McDonagh, insomma, manca di finezza, tanto che i suoi calcoli a livello drammaturgico ci permettono di prevedere passo per passo tutte le principali svolte della trama. Ad esempio, noi sappiamo fin dalla sua comparsa in scena che l’asinella Jenny sarà vittima del conflitto tra i protagonisti, almeno quanto il fatto che Siobahn, l’unica lettrice dell’isola, sarà l’unica ad andarsene; che Dominic sia destinato ad una brutta fine, senza che questa, per quanto brutta, sia necessaria ai fini della trama; infine, che il poliziotto sia lì per testimoniare la ‘presa di posizione’ di McDonagh contro la ‘police brutality‘, oggetto di critica costante in questi giorni nel mondo anglosassone e qui condensata in una figura che è di una cattiveria troppo programmatica per essere credibile.

Gli spiriti dell’isola‘ è un film sulla provincia, come scritto scopra, ma fatto da un cittadino, qualcuno che non ha toccato né vissuto ciò che vorrebbe raccontare, cosa purtroppo assai comune e che, in rapporto alla filmografia di McDonagh, genera retroattivamente dei dubbi anche sul suo film precedente, il fortunato Tre manifesti ad Ebbing, Missouri (2017).

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