Cinema

Un affare di famiglia

Come il bel Parasite (2019) di Bong Joon-ho, Un affare di famiglia (万引き家族, Manbiki kazoku, 2018) di Hirokazu Kore’eda è diviso in due parti e questa scansione diventa un punto di forza del film. Lo si capirà guardandolo: una simile struttura gioca a favore del regista e della sua lucidità che lo allontana dalla gratuità di un esito felice delle vicende.

Parliamo della storia di una ‘famiglia’ sui generis, ai margini del Giappone contemporaneo in ogni senso. Questo gruppo di sradicati s’annida in una casetta tradizionale circondata dal verde, stretta dai palazzi di cemento della periferia di Tokyo: questa scatoletta di legno, con il suo ‘muretto’ di alberi ed il cancelletto scorrevole alla fine di un piccolo cul-de-sac, ricorda i nidi di rondini sotto i cornicioni o una casupola nella campagna, in un posto che non sembra aver conosciuto la modernizzazione.

Questa percezione dell’isolamento spazio-temporale è una delle cose più belle del film, un elogio della sospensione, della possibilità di una comunione d’intenti ed affetti, della ‘famiglia’ come microcosmo che può comporsi nei luoghi più inaspettati.

Shota, Osamu e Rin dopo un furto. Fonte: Tumblr.com

A Kore’eda piace giocare alle affinità elettive, testando la vicinanza dettata dall’affetto o dal sangue, proprio come aveva fatto in Little sister, Father and son, Ritratto di famiglia con tempesta. Questa volta però l’istinto familiare non va ritrovato ma evocato attraverso il contatto costante.

Come ricorda il pilota americano di Porco rosso (1991), ‘l’abitudine vale più della passione’: il film si costruisce su questo assunto e sfrutta una grammatica di primi, primissimi piani, poche carrellate a servizio degli attori, campi che cuciono assieme i protagonisti negli spazi a segnare la solidificazione dei rapporti.

È una scelta linguistica che ricorda ciò che Hitchcock disse a Truffaut: al cinema ‘il vero amore <<al lavoro>>, il vero amore che <<funziona>>’ è quello in cui ‘non ci si lascia’, proprio come nella scena del bacio di Notorious (1946).

Proprio per questo principio, in Un affare di famiglia la vicinanza umana nel suo farsi è data dalla costanza con cui i protagonisti appaiono fisicamente nel fotogramma: gli abbracci, le strette di mano non fanno che ribadire ciò che è fatto a livello inconscio, quello dell’immagine.

Guarda caso le divisioni avvengono perlopiù verso la fine, quando il castello di carta dei protagonisti crolla dopo averci fatto sperare.

Scena in interni. Fonte: Tumblr.com

In fondo, se contassimo solo la prima parte, il film potrebbe sembrare una storia di riscatto umano, di una completezza raggiunta attraverso l’affetto.

Così non è: ai personaggi principali rimane al massimo un assaggio ed il desiderio del focolare. D’altro canto, si erano tutti conosciuti tra loro in modo troppo poco ortodossi perché il rapporto potesse essere stabile. Abbiamo una oba-chan (tr: nonna), Hatsue (Kirin Kiki), che vive con la pensione del marito e i soldi occasionali che riceve dal figlio di secondo letto del consorte defunto.

Con i suoi soldi e la sua casetta sostiene un trio atipico cui si aggiunge Aki (Mayu Matsuoka), nipote del marito di Hatsue, che lavora in un hostess club e non vuole i soldi della nonna; c’è Osamu (Lily Franky) che lavora in un cantiere ma è ladro per abitudine e passione; la sua compagna Nobuyo (Sakura Ando) che grazie a lui s’era liberata di un marito violento e lavora in una lavanderia; infine c’è il piccolo Shota (Jyo Kairi) che non è il loro figlio biologico ma un bambino trovato da Osamu all’interno di una Toyota targata Narashino quando era piccolissimo, a cui il ‘padre’ insegna l’arte del furto nei negozietti.

In questo gruppo inusuale arriva una notte invernale la piccola Yuri (Miyu Sasaki), che Osamu, per tenerezza, porta a casa dopo averla notata per ore al freddo sul balcone di casa. Sentendo le liti furiose dei genitori in casa mentre la stanno riportando, Nobuyo e Osamu capiscono che la bambina starà meglio con loro.

Questa scelta non farà scattare un intrigo, nonostante le premesse. Un affare di famiglia si chiede quale sia il valore del sangue di fronte ai sentimenti senza diventare per questo un film a tesi. Lo fa con una drammaturgia che evita il melodramma ed un’attenzione verso l’ambiente che raggiunge quella per i personaggi.

I protagonisti sono degli ‘invisibili’, appartengono a quella sottile ma dura frangia di ‘refrattari’ che il Sol Levante genera spontaneamente, per reazione, al di sotto della facciata ordinata, lavoratrice e livellatrice.

Questo va compreso bene, visto che il film ha un settimo protagonista: la periferia di Tokyo con i suoi palazzi e le sue strade che furono la gioia dei costruttori feroci del secondo dopoguerra e che la casetta dei protagonisti, insieme alla spiaggia della gita a mare, sembra far dimenticare.

Il treno per la gita. Fonte: Tumblr.com

Fosco Maraini ci aiuta a capire splendidamente la città giapponese: il centro urbano è un nexus, una tessitura di strade legate all’Utile. Non c’è posto per la nostra piazza intesa come salotto o per lo sfoggio del Bello.

Per i giapponesi la Grazia estetica è qualcosa da trovare nelle pieghe dell’esistente, il frutto di uno sforzo e una ricerca: se così non fosse, non sarebbe un valore superiore.

Questo senso estetico sembra pervadere tutto il film, pare addirittura che ne diventi la struttura morale e sentimentale, giustificando l’unione dei protagonisti che vivono a contatto col crimine, lontani dalla stabilità del resto del mondo.

Gli infiniti giochi di sfumature di Kore’eda aiutano nella percezione degli scompensi: non possiamo applicare ai personaggi un taglio morale netto. E se qualche benpensante potrà anche rimproverarli per i loro misfatti, che si dovrebbe dire di una società con un’alienazione tale da portare all’hikikomori (specie se parliamo di provinciali trapiantati nelle metropoli) o del suo sfruttamento allucinante del lavoro?

Al negozio di pesca. Fonte: Tumblr.com

Kore’eda non dimentica la solitudine e lo sfaldamento interiore di molti suoi connazionali: se verso la fine mostra il rigore degli agenti e la freddezza del Potere nel dividere la ‘famiglia’ protagonista, riportando Rin a casa dai suoi genitori giovani e violenti che neanche avevano denunciato la sua scomparsa, molto prima aveva accennato all’alienazione diffusa con le sequenze dell’hostess club.

Riesce nell’intento riassumendo questi fattori nella figura del cliente n.4 di Aki, che cerca, nel tempo concessogli dal cronometro, un’intimità riposante e tenera tra le braccia della ragazza.

Notando dei segni di autolesionismo sulle mani del giovane durante la sessione casta nel privé, Aki lo abbraccia per confortarlo. È una scena che non distoglie affatto dal tema del film, visto che questo può essere letto altrettanto bene come storia di un intreccio, riuscito per poco e fragilissimo, di più solitudini distinte.

Scontato, con queste premesse, che il contatto fisico torni come leitmotiv, portando ai primi e primissimi piani che Kore’eda dedica alle coppie Hatsue-Aki, Osamu-Shota, Shota-Rin, Rin-Nobuyo.

Madre e figlia. Fonte: Tumblr.com

A queste ultime due è dedicato un particolare slancio: si vuole rendere in immagini l’affinità elettiva che la ‘madre’ sente per la figlia trovata. ‘Ci siamo scelte’, dirà Nobuyo, destinata a ricordare con dolore la separazione da Rin e a vivere come una vivisezione l’interrogatorio verso la fine, mentre un agente tenta di ‘raffreddare’ il suo sentimento ed il suo istinto risvegliato.

Pur contando tutte le differenze di cultura ed epoca, sono De Sica, Claude Sautet e Maurice Pialat a venire in mente parlando di registi del quotidiano e dei fatti minimi della vita in qualche modo accostabili a Kore’eda, nel contesto europeo.

Ad ulteriore riprova di questa abilità del regista, si pensi al percorso interiore di Shota, dapprima diffidente verso Rin e poi affezionato, così come spensierato nel furto all’inizio e pentito verso la fine, per aver insegnato alla sua ‘imouto’ (sorella) a rubare.

È lui a far uscire la fragilità della ‘famiglia’ appena creatasi e la bontà d’animo di questi adulti non ideali il cui tenore di vita non ha atrofizzato l’umanità.

La narrazione orientale, del resto, è sempre stata più vicina alla vita perché intende la storia come un flusso e non per niente la trama del film sembra il percorso di un fiume deviato e drenato dall’azione umana.

Riprendendo il motivo dell’isolamento e della vita ‘sotterranea’ che era il cuore di Nessuno lo sa del 2004, Kore’eda arriva ad un film magnanimo dove tutto rifluisce in un’estetica sana, pulita, che dà, pur nella malinconia della trama, un senso commovente di benessere. La scena d’amore tra Nobuyo e Osamu è una lezione di regia per l’intimità.

Per quanto riguarda gli attori, fare una classifica tra i protagonisti mette in imbarazzo. Ciò nonostante, è bene rendere omaggio a Kirin Kiki che venne a mancare dopo le riprese del film e sussurrò un Arigato non contemplato in sceneggiatura durante la scena verso il mare, dando ancor più spessore al personaggio: è come se finzione e realtà si siano fuse in un attimo e lei, come Hatsue, stesse dicendo addio alla vita con gratitudine al regista che più di una volta l’aveva filmata al meglio.

A lei e ai suoi cinque colleghi si deve il fascino del film, aperto alle nostre conclusioni come lo sguardo di Rin oltre il suo balcone nel finale, ingiustamente lontana da quegli abitanti del sottosuolo nipponico che le avevano dato amore, capaci di misfatti sorprendenti e sorprendenti affetti.

Intimità. Fonte: sentieridelcinema.it

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