I vampiri e la loro minaccia occupano ‘Vampyr‘ (1932) di Carl Theodor Dreyer emergendo dal mondo delle Ombre, facendoci sentire il pericolo della loro presenza come quello di una marea nera che sale e contamina il mondo umano. A rischio, in questo film, è principalmente un’umana, una donna sola, malata e in balìa del Male, eppure sembra che tutto il mondo sia sul ciglio dell’Abisso: se cade lei, cadiamo tutti.
Certamente questo è ciò che pensano i protagonisti, a cominciare con Allan Gray (Julian West, alias di Nicolas de Gunzburg) che rimane immischiato nell’assalto perfido e ininterrotto che una famiglia subisce da parte di una vampira pluricentenaria e il suo infido servitore, dottore del villaggio. Gray accorre in aiuto entrando nel loro castello e scopre che la vittima da salvare è Léone (Sybille Schmitz), la figlia maggiore del castellano, che è lentamente drenata del sangue e della vita.
Data la semplicità della trama, non è il soggetto in sé a rendere importante Vampyr ma l’atmosfera: questo perché il film fa parte di quella schiera ristretta di perle capaci di rendere, con grande esattezza, i ritmi e i caratteri della vita onirica.
La nostra percezione è quella di Gray: proprio come lui, siamo disorientati in un mondo in cui i fantasmi si proiettano sui muri di un casolare senza un corpo fisico, ballano al suono di musiche del passato o si muovono con uno strano ritmo dato dal riavvolgimento della pellicola in senso contrario.
In questo incubo sventato, l’eroe, più osservatore che agente, sembra fluttuare in un’atmosfera sorda e compatta in cui, proprio come nei sogni disturbati di certe notti che tutti abbiamo vissuto, anche ciò che sarebbe inverosimile nella realtà pare plausibilissimo nel mondo onirico: questo va di pari passo con i cambiamenti fluidi di tono di sequenza in sequenza, laddove si creano legami, echi e richiami insoliti tra punti diversi del paesaggio umano e fisico del film.
Non manca, ad esempio, una sospensione dell’intreccio in cui Gray si ritrova in un personale tragitto verso il cimitero, come fosse sepolto vivo: la sequenza, lungi dall’essere inquietante, è di una tranquillità muta e sospesa, sia per la fissità della mimica di Gray, sia per la sua soggettiva dall’interno della bara che mostra un sole luminoso filtrare attraverso gli alberi. Questo passaggio, peraltro, precede e preannuncia il rinvenimento nel camposanto della tomba della vampira che è causa di tutti i mali della trama.
A dire il vero, non è indifferente l’apporto della componente oraria e meteorologica delle riprese nel risultato finale: il film è chiaramente girato di giorno per sfruttare le ore di luce, con delle scelte precise di velatura nei filtri della macchina da presa per offuscare la visione (l’ipnosi di Léone richiamata dall’esterno) o di momenti precisi d’offuscamento della luce esterna per via delle nuvole. Si ottiene quindi la percezione non di una sera destinata a concludersi con l’arrivo dell’alba ma di un giorno malato e minacciato, che manifesta il pericolo di Léone e di tutti quelli che le stanno attorno.
Per fortuna, il trionfo dell’oscurità è alla fine sventato e la visione di Gray e Sybille in campo lungo, quasi fossero ‘tornati a riveder le stelle‘, segna la vittoria del Bene. L’intento di Dreyer non era quello di fare un film religioso ma il Tempo lavora in modi misteriosi: lontani come siamo dalle critiche che il film ricevette all’uscita e potendo comprendere il valore di ‘Vampyr‘, sappiamo quanto la vena spirituale scorra forte nella pellicola.
In questa prospettiva chiarificata, il film si rivela essere quasi un racconto evangelico mischiato all’estetica gotica, una ‘parabola del vampiro‘: in fondo, che cosa racconta se non la prostrazione comune a tutte le anime abbrutite e tormentate, l’ipnosi distruttiva del Peccato che prova in ogni modo a farci dimenticare che non siamo soli, che si è sempre in tempo per cambiare, che in ogni istante possiamo essere salvati?