Cinema

Totò Le Mokò

Il bandito della Casbah (1937) di Julien Duvivier fu uno dei capisaldi della fama di Jean Gabin, nel ruolo di Pépé Le Moko. Il tocco esotico, i veli della fotografia all’interno di una confezione da cinema classico, la storia di redenzione di un bandito che sognava disperatamente Parigi: tutto concorreva ad affascinare il pubblico francese sulla scia di atmosfere fumose e penombrali, magari prese dagli esempi dei film della coppia Dietrich-Von Sternberg. Marocco del 1930 sia da esempio.

Quel film culto, dopo aver creato la mistica di una maledizione che avrebbe colpito il protagonista non appena fosse uscito dalla Casbah, si concludeva in tragedia col suicidio di Pépé al porto, lontano dalla Gaby che gli avrebbe riportato la felicità e un’occasione per tornare in Francia.

12 anni dopo, nell’adattamento parodistico che Carlo Ludovico Bragaglia avrebbe fatto del film di Duvivier, Pépé sarebbe scomparso, secondo le voci, per mano della polizia. La banda, ormai senza un capo, cerca un sostituto, possibilmente un suo parente, trovandolo in un cugino napoletano dello scomparso.

Il ‘fortunato’ è il suonatore di strada Antonio Lumaconi (ecco spiegata l’origine della francesizzazione!), il nostro Totò, che sogna di dirigere una banda vera e di non esibirsi più in piazza.

Qui l’introduzione è una delle più belle e tenere della sua carriera: l’attore si presenta a noi con fisarmonica, cappello con campanelli, piatti tra le ginocchia e dietro tamburo e trombone per cantare la sua mazurka, esibendosi per la gioia di grandi e piccini in una piazzetta dove a parte gli umani passano solo delle oche.

A vederlo non sembra passato un attimo dalla canzone che allietava i pomeriggi di Agostino Miciacio, il suo testardo personaggio in San Giovanni Decollato (1940), preso e riarrangiato da un testo di Nino Martoglio.

Questa volta però il protagonista è un suonatore che aspetta il suo momento di gloria e sembra che questo sia arrivato quando da Algeri arriva una lettera che lo invita a dirigere una ‘banda’. Inutile dire che il suo primo incontro coi banditi sia un capolavoro di doppi sensi, come quando Antonio dice che le fughe sono la base della ‘loro professione’.

Dopo l’assalto al Grand Hotel, che spiazza lo stesso capobanda, è normale che l’ormai ricercato Totò Le Mokò non voglia avere nulla a che fare col crimine. Peccato che appena uscito fuori casa veda la Casbah intera in subbuglio, come un concerto di nenie atte ad avvisarlo ed aiutarlo.

Da buon napoletano dei bassi, Antonio si unisce al coro per lamentarsi: ‘Iiiio stavo tanto beeene a Napoliiiiii, a suonareeeeEEEEEeeee!’.

La sua fortuna è che Suleima (la focosa Carla Calò), corrispettivo comico della Ines del film di Duvivier, lo voglia aiutare con una lozione per capelli fatta dalla maga della Casbah, Sarah, che dona la forza al timido italiano in Algeri.

Già solo questa prima parte fa capire, come giustamente ricordato da Ermanno Comuzio, quanto il sostrato musicale, con il desiderio della musica colta e la padronanza della popolare, sia centrale in Totò Le Moko: ‘In diversi suoi film (come in Fermo con le mani, I pompieri di Viggiù, Totò le Mokò, Totò a colori) il Nostro è direttore d’orchestra o di banda; ancora prima era stato il maestro di musica Mardocheo Stonatelli nella farsa teatrale “La camera fittata a tre”. (…) All’inizio dialoga con un “collega”: “Io sono un genio musicale. Se la fortuna mi avesse aiutato, a quest’ora sarei un professore di musica, un direttore di banda. Altro che Arturo… Arturo Toscani”. E all’altro che precisa: “Toscanini”, risponde: “Toscanini, Toscanelli, Toscanucci. A me questi toscani mi fanno ridere; ma vuoi mettere, ma vuoi mettere il temperamento musicale di un napoletano!” (…). Quando viene arrestato e i suoi lo liberano, fa la sua entrata in una taverna con una camminata da bullo sull’accompagnamento orchestrale che precede il “Chi mi frena in tal momento” della “Lucia di Lammermoor” e quando l’amante algerina vorrebbe impedirgli di frequentare la ricca straniera che si interessa a lui, la spinge da parte dicendo: “Lasciami andare. Schiavo non sono di questa vana tua gelosia” (verso di Turiddu nella Cavalleria Rusticana, nda), e all’invettiva di lei: “A te la mala Pasqua!” ribatte: “Che me ne frega? È Ferragosto!”(…). E alla conclusione del film, finalmente, Totò corona il suo sogno e dirige una vera orchestra, con tanto di coro, preludiando lisztianamente (la 2a Rapsodia). Dirige senza bacchetta come Stokowski, ma aiutandosi con i suoi tipici gesti, delle mani e anche dei piedi.’ (Cineforum, n.374, 5/1998)

Inoltre vanno ricordate le citazioni del film con Jean Gabin, finissime: si inizia infatti con la polizia che festeggia la morte supposta di Pepé dopo un movimento di camera che parte dalla mappa della Casbah.

Totò e la banda. Fonte: Wikipedia.org

Più tardi, dopo la prima applicazione della lozione che lo rende un Sansone, Totò picchia Za La Mortadelle (Mario Castellani, la spalla di una vita) richiamando l’uccisione dell’infame Régis, a cura della banda del Pépé originale, per aver causato la morte del giovane Pierrot (Gilbert Gil), pupillo del capo. Infatti, messi entrambi ad un angolo, i due azionano una pianola.

Nella seconda metà del film si sceglie, inoltre, di introdurre, come nel film del ‘37, un’altra donna, questa volta del bel mondo, Viviane de Valence (Gianna Maria Canale), rimando alla parigina Gaby che fa battere il cuore a Jean Gabin.

E se c’è un ricordo del viscido ispettore Slimane, dal viso di Iago arabo e dal riconoscibilissimo fez, questo si trova nella guida turistica che porta al café Alì Baba (stesso nome del locale nel film francese) i visitatori europei, nella speranza di far vedere loro Totò Le Mokò.

Che ironia poi che la polizia non riuscisse a stanare Gabin se non facendolo uscire dalla cittadella, quando Totò non soltanto fa arrivare i poliziotti nella Casbah ma li decima con un conto alla rovescia irresistibile, che lo fa anche più bello agli occhi della sua nuova fiamma!

Da non dimenticare inoltre l’atmosfera erotico-esotica, che Duvivier aveva reso con un alone di tristezza e pena per rendere la Casbah un carcere e che verrà fagocitata dalla struttura della parodia per diventare coerente con la costante del sogno erotico, asso nella manica della comicità di Totò.

La maschera di DeCurtis ama cercare le donne belle, distanti, di un altro ceto o ambiente, quelle con cui non sarà spesso possibile arrivare al dunque. Uno degli esempi più importanti è la Sonia Bulgarov (Yvonne Sanson) de L’imperatore di Capri (1949), ma si perde il conto di tutti gli approcci falliti: quello che conta è il principio della tensione erotica, la voglia insoddisfatta.

Totò Le Mokò ci fornisce con gusto uno dei migliori esempi di questi ‘coiti prevenuti’ quando il protagonista invita Viviane a salire da lui, ‘per chiudere la finestra’. Dapprima scansa Suleima parodiando l’Opera, come scritto sopra, chiamandola ‘faccetta nera’, ‘femmina di colore, ovverosia femmina colorata’, ‘terrona’. Poi parla all’indovina:

Totò: Di’, Sarah, tu che indovini tutto, hai indovinato che…(gesto per dire ‘vavattenne’)

Sarah: Ah ho capito, me ne devo andare… (exit)

Totò: (a Viviane) Questa strega è un fenomeno!

Ma il climax lo si ha poco dopo durante la lunga sessione di baci con Viviane: Suleima e Sarah si alleano nel creare una bambola voodoo per distruggergli la serata e durante la notte gli tagliano i capelli, come fosse Sansone, per fargli subire una castrazione sublimata.

Alla fine dei conti, queste trovate sono gioielli di quotidianità: qui Totò non è diverso da un ragazzo che, volendo portare una ragazza in camera, si trovi ostacolato dalle donne di casa. Trovata finissima, che si fonde con la bravura di Vittorio Metz e Furio Scarpelli in sceneggiatura, che danno alla Calò la possibilità di dare uno schiaffo morale, con la gelosia rovente e attiva di Suleima, alla passivo-aggressività di Ines.

Totò confrontato dal Pepé redivivo (Carlo Ninchi). Fonte: antoniodecurtis.com

Si aggiungano, nella lista di pregi di questo film, anche gli sfasamenti linguistici, come la ‘trimagliatrice’, Suleima che, sentendo ‘il cuore dei Mokò battere nelle vene di Totò’, è corretta da lui, visto che era l’oriuòlo Pathé Di Filippo a ticchettare o le battute politiche sulla monarchia, la DC, la casbah di tolleranza che ‘di questi tempi’ può essere prossima alla chiusura (siamo nel ‘49, dopo tutto).

Il finale è degno della rivista, peraltro già citata con la danza Apache a metà del film, presa dallo spettacolo ‘Il mondo è tuo, ovvero Di male in peggio’ (1933), che Totò portò sul palco dell’Eliseo dopo averlo scritto con la sua prima moglie, Diana Rogliani: la sfida con il redivivo Pepé si trasforma in un torneo di boxe (sospeso per recupero proteine con bevuta di uova a tempo record), spettacolo acrobatico e poi pirotecnico.

Il lieto fine darà poi all’eroe del film il successo in un vero teatro: il sogno è esaudito dopo una trasferta algerina interamente ricostruita negli studi Titanus.

Il cinema italiano sarebbe ritornato anni dopo, meglio di qualunque altro e per davvero, tra le vie della Casbah: Gillo Pontecorvo, con l’apporto preziosissimo di Franco Solinas in sceneggiatura, avrebbe reso giustizia ai guerrieri dell’indipendenza algerina con il suo splendido La battaglia di Algeri (Leone d’oro 1966), cestinando i filtri estetizzanti che avevano fatto la fortuna del cinema romantico degli anni ‘30 e ‘40, togliendo il velo e le seduzioni esotiche dal volto dell’Africa mediterranea.

Totò Le Mokò, va detto, è bello anche per questo: ricrea con simpatia un’ambientazione cara al cinema del secolo scorso, prima che la voglia di realtà distruggesse le illusioni narrative e sentimentali mostrando, con lo sforzo degli italiani e di autori arabi come Yusuf Shahin, un’immagine cinematografica più vicina alle persone che percorrevano quelle strade e quei luoghi vessati da stranieri, resi magari nell’immaginario come scenari da cartolina.

È un ricordo affettuoso di un cinema del passato le cui ingenuità narrative sono buttate in risata e se dopo l’umorismo rimane un’aura, quella appartiene al suo protagonista che si è meritato l’affetto del pubblico, la stima di Monicelli e Pasolini, gli elogi e la passione critica di Goffredo Fofi e della sua ultima compagna, fedelissima alla sua memoria, Franca Faldini.

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