Arte

Riflessioni su “Realismo magico”

Il primo novecento nostrano, tolta forse l’architettura fascista, non è tra le età dell’arte più conosciute dal grande pubblico, anche se meriterebbe l’affetto degli italiani non meno delle grandi epoche della nostra tradizione.

È un tempo di ricerche, che porta da un lato l’arte del regime ad usare il rigore ed il senso di massa dato dalla pietra, portando l’EUR ad essere un trionfo di ombre nette sul chiarore del marmo ed il suo architetto Piacentini a sviluppare un senso costruttivo fondato sul parallelepipedo; il gruppo di Novecento guarderà invece all’antico, riproducendo in termini di semplificazione e solidità la grammatica anatomica, come accade in Sironi.

Nel frattempo è nata la rivista Valori plastici (1919-1921) grazie a Mario Broglio, editore e pittore che spinge per una ricerca di stampo più concentrato e personale. Bisogna capire innanzitutto che cosa voglia dire italiano in arte e al contempo che cosa sia ‘l’essenza vera immutabile’ del ‘pittore poeta’ capace di dare ‘un’immagine dell’eterno reale’ (Carrà).

Si parla già in termini metafisici, s’afferma che il reale non è solo quell’insieme di corpi e significanti lasciati semplicemente in uno spazio tridimensionale. Si deve comprendere che cosa quell’insieme rappresenti davvero nell’occhio interiore, che cosa il metabolismo artistico del pittore possa cogliere da ciò che ha di fronte.

È un atto di digestione spirituale e di riscoperta del visibile. Contini insegna che ‘visivo non è visionario’, che a volte il primo termine esclude il secondo per il suo legame con le forme del reale. Nulla però blocca in arte, così come in lingua, di arrivare a risultati astratti, fantastici o allucinati con un vocabolario ridotto, pratico e quotidiano.

Si può arrivare al massimo dello spirituale attraverso il massimo del materiale e solo una persona priva di spiritualità scinderebbe questi due piani dell’esistente, incapace di vedere tra di loro analogie, opposizioni, incompatibilità o complementarità.

Ecco quindi farsi strada nell’arte italiana degli anni ‘20 un tentativo di arte archetipica che trova i suoi numi tutelari nei padri della pittura italiana, Giotto-Masaccio-Piero Della Francesca: questa triade benedice le opere che si trovano esposte al Palazzo Reale di Milano nella mostra Realismo Magico (19.10.21-27.02.22), concorrente di quella su Monet, pittore-calamita del pubblico.

Si inizia il percorso con una ‘regina in trono’, la Silvana Cenni (1922) di Felice Casorati (1893-1963), che sarà il protagonista della prima parte del percorso così come lo sarà Cagnaccio di San Pietro nella seconda.

La Cenni, Raya (1925) e Cynthia Maugham (1924-25) sono le tre opere del pittore che dominano l’esposizione poco dopo l’ingresso. Tutte e tre sono ammalianti per le stesure cromatiche ma anche per la costruzione prospettica: c’è in loro una spinta verso l’alto e l’esterno, evidente per il punto di fuga soprelevato e l’innuendo spaziale negli ultimi due ritratti, dovuto ai due sfondi in penombra che scatenano la nostra curiosità sulla prosecuzione degli scenari.

La Cenni è una donna statuaria ‘della porta accanto’, pensierosa ma non respingente, ha la testa altrove: sembra che sia già lì sulla cupola dei Cappuccini di Torino pur fissando le sue carte, forse alla ricerca di qualcosa che non riusciamo subito ad intendere.

L’atmosfera di sospensione è data ulteriormente dai colori poco saturi, dall’omogeneità delle pennellate, in una stanza movimentata dalla fantasia della tovaglia a fiori che scende accanto sui lati della figura centrale.

Perdipiù, le tre donne (la Cenni è immaginaria ma non meno reale della cognata del pittore, Cynthia, in basso a sinistra) sono tutte viste in una nostra soggettiva: siamo idealmente di fronte a loro, in piedi, con la testa impercettibilmente rivolta in basso per vederle meglio.

Lo stesso effetto, ma in maniera più esplicita e con corpi nudi che riflettono la luce con tocchi di bianco sapienti per rendere la lucidità materiale, è ricreato con ‘Dopo l’orgia’ (1928) di Cagnaccio di San Pietro (1897-1946). Questo quadro, tra i simboli dell’esposizione, mostra come l’approccio italiano all’’onirismo non seguisse le tendenze transalpine che hanno degli antenati più ricchi di spirito nei mosaici medievali, nel gotico, nei libri d’ore e nei primi fiamminghi: da noi non si è cercato, come nel surrealismo, la stranezza nelle forme di corpi inusuali ma in un fatto rappresentativo e atmosferico.

Perdipiù, il dipinto mostra ‘la quiete dopo la tempesta’, se così si può dire: le tre prostitute sono attorniate da pezzi di vestiario dei loro clienti, gentiluomini che lasciano lì accanto il cappello, i guanti, le carte, lo champagne ed un gemello col fascio littorio. Eppure, nelle loro pose contratte e nelle pennellate infinitesimali che le compongono, le tre protagoniste non sembrano mai essere state sveglie: la stanza di una casa di piacere sembra un limbo e noi siamo visitatori silenziosi in quell’ambiente.

Questo principio di astrazione e weirdness si ritrova pure più avanti, in opere tedesche esposte per far vedere un legame tra le ricerche dei nuovi oggettivisti del Reich e quelle degli italiani coevi. Una nota di lode in questo senso va al Ritratto del figlio (1926) di Fritz Silberbauer: tutto nel dipinto, il più bello della sezione dedicata all’infanzia insieme a Maternità I di Cagnaccio, è giocato sulla verticalità del viso del bambino, riverberata nelle colonne e negli oggetti dello sfondo.

Questo stratagemma potrebbe ricordare, a noi italiani, il Parmigianino de La Madonna dal collo lungo (1534-40, qui sotto a confronto col ritratto in questione), in cui la fisionomia della Vergine è riecheggiata dal colonnato serratissimo dietro di lei.

D’altro stampo è invece la ricerca dei Carrà e i Severini esposti, puntati tutto verso la sintesi anatomica e spaziale più che alla resa dell’uncanny: del primo abbiamo, nelle sale iniziali, Le figlie di Loth (1919), accanto al tenero e morbido Martini de Gli amanti (1920), tutto costruito su curve e spigoli addolciti.

Più avanti, nella sala del paesaggio, si trova Il Pino (1921, vedi foto in basso): stessa architettura, sulla sinistra, ideata per le figlie bibliche con interni bui e poche aperture; oltre quella casa, un cielo azzurro sopra un blu quasi compatto del mare, a parte dei tocchi più chiari vicino all’orizzonte, e la fronda dell’albero che Carrà rende come un bulbo verde scuro, cui aggiunge per sintesi dei rametti con foglie. Il fusto dell’albero peraltro fa pensare, come la grotta in fondo, alla ceramica molto più che alla pittura.

Non meno compatti sono i profili delle figlie di Loth o del cane che le accompagna in una scena che sembra una Visitazione o ad un’Annunciazione allucinata e astratta. Per tutt’altri mezzi, Cagnaccio arriva alla stessa distanza dal reale partendo da una scena di toeletta con un blu lucido e pervasivo ne La donna allo specchio (1927, in basso): la citazione classica del singolo seno esposto ‘alla Venere genitrice’ è elegantissima e sono valorizzati per accostamento e contrasto il rosso quasi corallino dei vasi per unguenti, il bianco della veste ed il tono dell’incarnato in un ambiente monocromo e luminoso.

La donna allo specchio è una delle prove più evidenti che un motivo delle opere in mostra è anche lo studio degli spazi, delle direttrici che convogliano la nostra attenzione a causa di un pensiero architettonico del quadro. In fondo, uno dei segreti della pittura è pensare di star raffigurando forme, non corpi: questo è uno dei grandi aiuti che possa dare l’esperienza nel mestiere.

Non meno importanti in questo senso si rivelano Antonio Donghi con Donna al caffè (1931, in basso a sinistra) e Gli amanti alla stazione (1933, in basso a destra) o il Funi di Maternità (1921, sotto i quadri di Donghi), spiccanti entrambi per la costruzione solida, la tenerezza, i volumi compatti, pur con due stesure e rese luministiche diversissime.

In quest’ultimo dipinto non è meno memorabile della coppia madre-bambino la finestra che si apre su palazzi in costruzione e si apre sull’orizzonte di una campagna che sta diventando periferia. È il risultato di una concentrazione linguistica che espone lo scheletro della sua grammatica visiva, non dimostrandosi passiva rispetto alla tradizione figurativa della Vergine col bambino.

Un maggiore attaccamento all’antichità classica è dimostrato invece con le donne di Mario Broglio in pose orizzontali e costumi di nuotatrici; ne La toeletta del mattino (1922) di Mario Rozzi, con una fisionomia femminile in pieno risalto muscolare (soprattutto nell’addome e nell’avambraccio) o nella statuarietà delle donne di Mattutino (1927). Vicino la Cenni, si potrà trovare una citazione esplicita con una statua sullo sfondo de L’allieva (1924) di Sironi, immersa in un’atmosfera densa come le pennellate che la compongono, come un’aria di fabbrica.

Per trovare un po’ di chiarore dobbiamo passare alle nature morte, ammirando Gli stivali (1927) di Kathe Hoch, le tavole di Cagnaccio e le Bottiglie (1927) di Edita Broglio, poco distanti da Giocatori di carte (1924) di Severini.

Il colpo d’ala finale è dato però nell’ultima stanza: accanto agli amanti delicati di Donghi, a La sera (1923) e Alzana (1926) di Cagnaccio, si può ammirare Viaggio tragico (1925, ultima foto in basso) di Ferruccio Ferrazzi, un quadro bellissimo, solidamente costruito con pennellate scariche addensate l’une alle altre, per creare un senso pulviscolare dell’aria in una stanza piena di malinconia e incertezza per la casa lasciata dai protagonisti e la destinazione di cui non c’è dato sapere niente.

Il percorso si conclude con questo quadro monumentale, a dimostrazione di come il senso rinnovato, spirituale della realtà nell’arte italiana del Novecento valorizzi la presenza umana. Nulla di più distante dai personaggi di un Hopper, ingiustamente più famoso dei nostri pittori, che non imprimono alcun segno nell’ambiente che li circonda, immersi spesso in una luce fortissima, quasi aliena.

Non era un caso il ritorno al Trecento/Quattrocento come binomio fondante dell’ispirazione artistica in questi artisti: si trattava di una fase decisiva per la pittura italiana (e non solo) in cui l’arte poteva riscoprire la forma umana e in base ad essa calibrare tutto il suo tracciato evolutivo, lontana dal rigore ieratico, pur bellissimo, dell’arte bizantina o dai volumi pesanti del romanico.

Il risultato ottenuto esprime al meglio il XX secolo nostrano in quella ricerca dell’Idea tramite il suo opposto o quantomeno, i suoi riverberi crassi nella materia. L’unico consiglio che si può dare in merito a quest’esposizione, se sia ama l’arte in senso pratico, è quello d’armarsi di taccuini e matite. Con queste opere c’è molto da imparare.

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