Cinema

Les garçons sauvages

Provate ad immaginare Il signore delle mosche (1954) in salsa LGBT, diviso tra scenari in bianco e nero e frammenti a colori che sembrano presi dalla Salomè (1971) di Carmelo Bene (1937-2002) o da Querelle (1983) di Fassbinder (1945-1982) e avrete quantomeno un’idea di base dell’impianto visivo di Les garçons sauvages (2017), film del francese Bertrand Mandico (1977).

Secondo i dettami del manifesto scritto dal regista stesso con Karin Olafsdottir (Incoherence Manifesto), Mandico evita ogni riferimento diretto a qualsivoglia tempo storico (anche se il décor fa pensare al primo Novecento), si affida alla pellicola (che aiuta sul piano estetico) e fa ricorso ad un continuo cambiamento cromatico e tonale per via della grande mobilità di camera.

La trama s’incentra sulle vicissitudini di cinque ragazzi di buona famiglia, dediti a scorribande e violenze varie. Il film inizia con l’ultima delle loro malefatte, lo stupro della loro professoressa di lettere che, legata ad un cavallo, muore cadendo da una scogliera.

Per punizione vengono affidati ad un ombroso lupo di mare che li lega come cani e li fa arrivare su un’isola paradisiaca ma inquietante, dopo averli costretti a mangiare della strana frutta pelosa e averli strozzati per giorni con corde azionate dalla cabina di comando.

L’isola del loro approdo è cosciente, piena di piante, succhi e appendici che li nutrono, li drenano e li trasformano in donna. Alla fine, dopo aver ucciso il capitano, fanno coalizione con Séverine (Elina Löwensohn), ‘sciamana’ e ‘psicopompo’ sui generis nata uomo che, in una ricerca scientifica, aveva scoperto l’isola e accettato la sua nuova femminilità, con il conseguente desiderio di convertire quanti uomini possibile in donne allo scopo di rinnovare il mondo, volendo (cosa esilarante espressa letteralmente nel film) eliminare guerre e conflitti nel processo.

Il film, che dovrebbe spingere, secondo le premesse dell’inizio, sul sospetto, sulla densità degli avvenimenti e la carica sensoriale, si sfilaccia verso la fine e si palesa come un’opera a tesi sul tema della mascolinità tossica, che vede i suoi protagonisti costretti a subire una vera e propria ‘cura Ludovico’ a base di estrogeni.

Castrati per compenetrazione con l’ambiente, quasi fossero dei novelli sacerdoti di Cibele, i protagonisti vengono inghiottiti dal Femminile che è rappresentato dalla natura dell’isola e letto come inizio di una nuova Storia in cui ‘L’avenir est femme, l’avenir est sorcière‘.

Il tutto, peraltro, nella cornice di un mondo che ricorda l’isola di Anatahan (1953), opera di chiusura e compendio del cinema di Von Sternberg di cui si è già scritto su questo sito.

Certo è che qui, a differenza di quel classico, la mascolinità non sia tanto mostrata nella sua regressione animale e distruttiva quanto diluita e riassorbita in una dimensione ‘altra’, anche in senso distruttivo, come avviene con l’uccisione dei marinai verso la fine, quasi fossero finiti tra le grinfie di alcune baccanti.

Il regista, nonostante i punti del suo manifesto che dovrebbe dargli le basi per una più grande libertà di stile e narrazione, sembra essere ancora troppo parassitato da certi modelli passati, nominati nell’apertura di questo articolo.

Il suo lato cinefilo sembra essere andato a discapito del ritmo del film, allentato dopo una prima parte coinvolgente e, nello specifico, subito dopo la sequenza della morte del Capitano.

Lo stile intriga ma la sua suadenza gira a vuoto: la troppa sensuosità e l’assenza d’idee guastano l’insieme di questo film chiaramente improntato a compiacere una platea LGBT o di loro simpatizzanti in una celebrazione tutt’altro che profonda della dimensione del Femminile, troppo legata a certi dibattiti dell’attualità dietro la volontà di ricollegarsi ad un’atmosfera originaria, mitica, potente e metamorfica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: