Gioiello eccentrico, Everything Everywhere All At Once (2022) è un film di cinefili che ha il merito di non rivelarsi esclusivamente per cinefili. Di certo è un tributo affettuoso alle componenti asiatiche presenti nel cinema americano degli anni Ottanta, qui valorizzate con uno slancio ed un’organicità assai rari tra gli autori citazionisti. Non indifferente per il risultato è l’umorismo dei suoi autori che sanno rendere l’eclettismo del film una forza narrativa e soprattutto ritmico-visiva.
In questo film Matrix (1999) corteggia e gioca con il genere wuxia, il cinema di Wong Kar-Wai, l’opera cinese, Ratatouille e la commedia hollywoodiana, diventando una delle strutture fondamentali nella vita di Evelyn Wong (Michelle Yeoh, splendida), immigrata cinese in America insoddisfatta del suo quotidiano. Il mite marito Waymond (Jonathan Ke Quan, uno dei piccoli eroi dei Goonies visto pure nel secondo Indiana Jones) vuole lasciarla, il contrasto con la figlia Joy (Stephanie Hsu) si acuisce e l’approvazione del padre (chiamato Gong Gong, cioè ‘nonno’, interpretato da James Hong che era il mago nero di Grosso guaio a Chinatown) rimane una delle urgenze più pressanti della sua vita.
Contattata da una versione alternativa di Waymond che vuole fermare la famigerata Jobu Tupaki, alter-ego della figlia e signora del Multiverso che sogna la distruzione propria e di Evelyn, la protagonista dovrà lottare per rappacificarsi con ogni possibile versione di sé stessa.
La bellezza del film, che nel suo lato di commedia realistica non presenta novità sostanziali rispetto a molte altre pellicole sulla famiglia, sta proprio nell’elemento fantascientifico che rinnova e valorizza quello psicologico. Visto come un ritratto di donna, EEAAO eccelle nel portare alle estreme conseguenze un dato più che realistico: il pensiero volto a come sarebbe stata la nostra vita in ambienti e circostanze diversi, alle infinite possibilità della mente, dell’anima, dei talenti.
Se lo si prende invece come una fantasia della protagonista, Evelyn risulta vincitrice proprio perché ha potuto visualizzare tutte le sue varianti e così facendo le ha vissute, ne ha assorbito i punti di forza attraverso un grande senso icastico e immaginifico, tornando in armonia con sé stessa e gli altri. Uscendo dal proprio tunnel, lei porta con sé la figlia che era ferma nella volontà di scomparire e di estinguersi, in una personale ricerca di un Nirvana che si mostra fin da subito come un buco nero racchiuso in una everything bagel (trovata geniale).
Inoltre, bello e poetico è il modo in cui il montaggio (inteso in senso visivo e sonoro) ci fa passare di mondo in mondo mostrando tutte le vite di Evelyn, facendo vedere le modifiche e i rimandi delle sue vicissitudini, azioni ed emozioni, le quali cambiano contesto, forma e tono ma non sostanza, come delle onde rifratte nello spostamento tra dimensioni diverse.
Senza dubbio è un film originale con attori strepitosi, con una tecnica ed una struttura che gli danno potenza e memorabilità. L’unico tratto inutile sembra essere la scelta di aver reso la figlia Joy omosessuale, visto che non c’è una seria ragione narrativa perché lei debba esserlo. La sua sessualità non aggiunge niente al personaggio i cui fulcri sono la mancanza di uno scopo nella vita e la profonda, lacerante insicurezza: questa nota dolente, fin troppo diffusa nei nostri tempi, è molto più grave ed importante di qualsiasi gusto lei possa avere sul piano sentimentale.