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Cinema

Cannibal Holocaust

Quelle drôle d’époque. Suis-je un menteur? Je vous le demande? Je suis plutôt un mensonge. Un mensonge qui dit toujours la vérité.

Da ‘Le menteur’ di Jean Cocteau.

Presentandolo l’undici marzo nella rassegna ‘Nocturna’ della Fondazione Prada in omaggio a Ruggero Deodato (1939-2022), Lamberto Bava (1944), suo aiuto regista, ha definito Cannibal Holocaust (1980) un ‘film perfetto’: definizione che rende giustizia alla simbiosi e alla complessità virtuosistica di forma e contenuto in questa pellicola, non relegabile assolutamente nei confini dell’horror italiano degli anni Settanta-Ottanta.

Cannibal Holocaust ha 43 anni e non ha una ruga: anzi, si ritrova rinvigorito da quasi mezzo secolo d’espansione di quegli stessi media cinematografici di cui riusciva a far capire e prevedere gli esiti più esasperati. Scatola cinese dell’orrore? Sì, ma l’orrore vero in questo film è quello morale, eccitato dalle possibilità del cinema e delle sue possibilità immersive; dal pericolo dell’empatia manipolatoria derivata dall’uso (magistrale) della soggettiva; dalla descrizione puntuale della morbosità verso le immagini da parte del sovraccarico occhio modernizzato che, lungi dal trovare un equilibrio, alza sempre di più la sua soglia di sopportazione dello stimolo e richiede, come tutti i tossicodipendenti, di ‘aumentare la dose’.

Che quest’ultimo inquietante fattore sia accostabile al pericolo della pornografia strictu sensu, non deve sorprendere: sta al pubblico più accorto capire che esistono tante forme di pornografia e Cannibal Holocaust dimostra che non meno pericolosa è quella del reportage, della ‘live’, del ‘reality’, che i più incolti sul piano visivo prendono per ‘naturale’ e ‘spontanea’. L’amara verità è che tutto è rappresentazione, tutto è narrazione, tutto è racconto.

L’occhio non è mai ingenuo né imparziale: lo impara a proprie spese il professor Monroe (Robert Kerman), protagonista del film, che deve addentrarsi nella foresta amazzonica per ripercorrere l’ultimo viaggio di una troupe di giovani reporter e avventurieri. La pellicola, recuperata nella foresta presso una tribù di cannibali, ‘scopre gli altarini’ mostrando le violentissime, compiaciute riprese dei dispersi che giocano con gli stereotipi della barbarie, applicandoli ai nativi dell’Amazzonia e inventando scenari sanguinosi di cui loro sarebbero soltanto dei testimoni virtuosi, perché ‘civilizzati’.

La lezione di Cannibal Holocaust riesce perché il suo stile combacia senza margine di errore con la sua drammaturgia e il suo significato. Inoltre, il film mette in guardia sulle pretese di innocenza e onestà della messa in scena e dello sguardo, sul nostro concetto di ‘Altro’, ‘Primitivo’ troppo spesso mischiato con ‘Barbaro’ ed ‘Esotico’: tutte definizioni che spesso si proiettano all’esterno del proprio mondo (da intendere culturalmente anche più che etnicamente) per trovare uno sfogo e una giustifica a quelle dinamiche della psiche (personale e collettiva) che nel quotidiano non possono trovare espressione.

Il risultato è che in questo ‘Cuore di tenebra’ cinematografico la tecnica potenzia le risorse della perversione intesa in senso sia personale che sociale, pronta a dimostrarsi al suo stadio puro come teatro: non per niente, la constatazione che il mondo sarebbe un palcoscenico, elevata a potenza con l’avvento del Cinema, comporta che tutto ciò che riesca ad entrare dentro il fotogramma non sia né più né meno che una recita, senza neanche il bisogno del ‘ciak’ del regista per partire.

In questo modo il formato dell’immagine diventa un’arma di selezione tranciante che esclude anche più di quanto includa, non contando i lavori possibili sulla luce o sul montaggio da compiere in seguito.

Cannibal Holocaust non aveva certo sulla carta dei fini così complessi, ma la conoscenza tecnica di Deodato, coadiuvato da Sergio D’Offizi alla cinematografia e Vincenzo Tomassi al montaggio, fa fare al film un salto che giustifica pienamente il successo che ha incontrato nel tempo, scavalcando al contempo sia il concetto di film ‘di genere’ sia il limite distributivo postogli dal cinema ‘mainstream’.

Ai giorni nostri, questo film di culto dimostra quanta precisione e profondità ci possa essere nello scandaglio delle dinamiche sotterranee del Cinema senza per forza appartenere alle cerchie ‘intellettuali’ della Settima Arte.

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