Lighea-tomasi-lampedusa-racconto
Letteratura

La sirena

La sensualità del Gattopardo (1957) sembra trovare uno sbocco perfetto in quel gioiello che è La sirena (1956) o Lighea, sfogo della vena fantastica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957).

È un racconto nel racconto il cui scheletro piacerebbe moltissimo agli amanti di Emily Brontë, per via della struttura a due narratori che ci riporta a Cime Tempestose (1847): si parte con un profano (Paolo Corbera in La sirena e Mr. Lockwood nel romanzo della Brontë) che ascolta e fa parlare un iniziato, un testimone del Mistero che fa da fulcro alla storia.

Il lettore viene così portato all’interno della trama per questa semplice ed efficace meccanica dell’immedesimazione con il primo narratore che si fa pubblico a sua volta.

Le somiglianze con il romanzo della Brontë, adorata da Tomasi stesso, non si fermano qui: come Lockwood, Corbera è un gentiluomo del Sud trapiantato al Nord e subisce anche lui, all’inizio, una delusione d’amore, anche se l’ironia graffiante dell’autore gli concede giusto un tentativo amoroso con due tote torinesi finito piuttosto male e con modalità assai prosaiche.

Il lato magico della storia non è dato dall’essenza del luogo in cui Corbera è trapiantato dall’autore: Torino serve come opposizione totale alla Sicilia, che è tutta ricordata dal suo contraltare Rosario LaCiura. Il nord italiano non può avere il potere dello Yorkshire della Brontë e non per niente le luci dorate dei caffè di Via Po sbiadiranno tutte di fronte al lume mobile e franto del mare siciliano.

Siamo di fronte ad una favola che non trascura la Storia (siamo nel ‘38) ma la sfrutta per motivi di lirismo: il tempo reale è la prigione da cui uscire e Lampedusa punta al massimo sulla sua capacità sensoriale per arrivare all’obiettivo.

Non per niente il suo Rosario LaCiura sembrerà intraprendere un personale ed inconsapevole percorso che gli farà incontrare la sirena come premio e conclusione di una privata esperienza misterica.

Importante è ricordare il travaglio che precede la visione e la storia d’amore: Rosario è di famiglia povera, dedicato interamente allo studio della grecità con un trasporto che ha del masochistico.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Fonte: viveremilano.info

A questo si aggiunga l’intossicazione dell’estate insostenibile del 1887: l’Etna rende impossibile anche solo appoggiarsi ad una ringhiera, sembra far ritornare allo stato liquido il selciato di pietra lavica. Aiutato dallo scirocco, sfibra il giovane Rosario reso totalmente assente, capace solo di balbettare versi greci che non è più un grado di capire e che è salvato per fortuna da un amico benestante, pronto ad offrirgli un piccolo casolare sulle spiagge vicino Augusta.

Questo spartiacque apre all’eremitaggio vicino al mare, scenario dell’incontro con Lighea. Si aprono qui due interpretazioni: quella materialistica che potrà guardare alla sirena come ad un’allucinazione di una mente annebbiata e sconvolta; quella spirituale che può pensare alla sua intossicazione e al delirio come a delle aperture necessarie per l’esperienza mistico-erotica con la creatura divina ed immortale.

L’incontro con Lighea sulla barca, poco più avanti, fortifica l’importanza dei valori visivi ed olfattivi nel racconto: dall’odore di cenere, di chiuso e di fumo dei caffè torinesi si passa all’odore del mare, del pesce scarnificato da Lighea, del corpo mischiato all’acqua salmastra, dell’aria calda che nasce dal sole rimbalzato sulla spiaggia siciliana.

Per descrivere poi i baci della sirena l’autore torna all’immagine del vino che inebria rispetto all’acqua, insulsa ed insignificante: la stessa usata per descrivere l’amore di Concetta, figlia del principe Fabrizio del Gattopardo, per Tancredi.

Si racconta l’intimità degli amanti con una delicatezza che nulla toglie alla ferinità degli amplessi: l’eterna sedicenne desidera il protagonista che sotto le sue mani vibra come un diapason. È un amore sui generis paragonabile ad un incontro ravvicinato del quarto tipo o ad un atto di bestialità trasfigurato, proprio come quello degli amori di Zeus.

Questa è un’unità tra mito, natura e psiche che riporta all’esempio della Brontë, al Miyazaki de La città incantata, al racconto accennato di Lucio ne Le Metamorfosi di Apuleio sui misteri di Iside.

Gli junghiani si emozionerebbero di fronte a questo racconto proprio come davanti ai due primi esempi già citati: nell’immaginario personale della Brontë, l’Animus, l’ideale maschile all’interno di una coscienza femminile, è una forza dell’aria, uno spirito del vento che porta ad immagini erotiche meravigliose come nella poesia The Night Wind; nel film pluripremiato di Miyazaki (e si potrebbero pure fare altri esempi con la sua filmografia), abbiamo l’amore casto della piccola Chihiro con lo spirito fluviale Haku, entità con cui ha suggellato un tacito patto d’amore eterno; così il Sasà di Lampedusa vede la sua Anima, il suo ideale femminile, cristallizzato in una figura mitica legata al mare che attraversa i tempi e cambia la sua vita in un’epifania totalizzante.

Qui Carl Jung vince Freud a conti fatti, anche se rimane centrale il legame, come accade nel Gattopardo, tra Voluttà e Morte, tra Piacere e Dissoluzione.

Vaso con Ulisse e le sirene. Fonte: Wikipedia.org

Gioacchino Lanza, erede di Tomasi, nell’introdurre per Feltrinelli il racconto isolato, mette in risalto dettagli biografici dell’autore, fa nomi e cognomi sulle possibili ispirazioni per il personaggio di LaCiura e giustifica questo approccio ricordando che suo padre adottivo fosse un ‘saintbeuviano’ di ferro: un seguace cioè delle teorie di Charles de Sainte Beuve che puntano a studiare l’opera di un autore in relazione alla biografia, all’ambiente, al periodo in cui è vissuto, alle carte private, applicando uno studio non diverso da quello che si troverebbe nelle scienze naturali sui fatti artistici e psicologici.

Per quanto valido il metodo, le note autobiografiche che contino davvero, tralasciata la Sicilia, sono semmai dei concetti depurati dai nomi della vita reale, delle dinamiche che tornano nel Gattopardo e per vie traverse tradiscono la psiche dell’autore.

Si tratta del rapporto Vecchio-Giovane con tutto lo stacco generazionale e di vedute che ne consegue, come accade tra LaCiura e Corbera, il principe Fabrizio e il nipote Tancredi; della percezione atmosferica ed ambientale dilatata in uno spartito di sensazioni da parte dell’interiorità del narratore e che sembra essere rubata da pagine di diario di Lampedusa; il ‘ricordo’ reso ‘rovina’, distrutto o logorato dal Tempo.

È proprio a questo punto nevralgico che l’autore ricorre per chiudere il racconto dopo il tuffo di LaCiura da vecchio, che accoglie l’invito di Lighea verso gli abissi. Come accaduto già ad un pezzo di corallo regalato dalla sirena, rubato da una domestica poco di buono e ritrovato in una bottega, lavorato e manipolato da troppe mani profane, così i lasciti di LaCiura al confidente Corbera vengono distrutti da un bombardamento alleato in Sicilia.

Questa ferita, questo scempio fatto dalla Storia ai reperti del cuore erano ben conosciuti da Lampedusa: il suo palazzo fu distrutto durante la seconda guerra mondiale e la ricostruzione poté avvenire solo con la scrittura amorevole di quel racconto preziosissimo che è I ricordi d’infanzia.

La desolazione della perdita è percepibile nella descrizione di Corbera dell’eredità dello studioso distrutta negli anni ‘40: il vaso con Ulisse e le sirene e la foto di una Kore dell’Acropoli che gli erano stati donati vengono scempiati dai liberatori, ignari del loro significato affettivo.

Sic transit venustas mundi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: