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Cinema

Gli amanti crocifissi

È stato il Giappone a mettere realmente l’Oriente sulla carta geografica, nel voler tentare di raggiungere, con una concentrazione immensa, il livello delle grandi potenze occidentali.

Un paese simile, che nel 1600 non era entrato ancora nel nostro immaginario come la Cina o l’India, chiusosi al mondo fino al 1853, è riuscito ad entrare nel nostro quotidiano, scioccare per la sua efficienza bellica, per la crudeltà dimostrata in Cina e proiettarsi come superpotenza economica nel secondo dopoguerra.

Questi risultati sono figli di una cultura che vede il lavoro non come una ‘fatica’ ma come un fatto indispensabile della vita; una coesione sociale che esprime già nel linguaggio un sentimento comunitario fortissimo, originatosi nei villaggi dove la vita è concepita nella simbiosi e nel contatto costanti; infine, non si può tacere del sostrato shintoista e confuciano che ha cementificato la civiltà giapponese in quanto ‘cultura della vergogna’.

La scena del lago Biwa tra Osan e Mohei. Fonte: YouTube.com

Fu Ruth Benedict col suo Il crisantemo e la spada (1946) a coniare questa espressione, parlando proprio del Giappone, creando uno spettro di valori che andasse dalla Vergogna alla Colpa come fondamenti comunitari ed individuando il Sol Levante come mondo definito dal senso dell’onore fino al masochismo.

In società simili, allenate al decoro, la mentalità collettiva fa da anticorpo alla libertà personale, pensata come energia con tendenza centrifuga: se questo schema è accettato, si vive più attraverso gli occhi degli altri che per sé stessi.

Basterà ricercare articoli sui suicidi che in Giappone sono scatenati da motivi lavorativi per capire come la mente nipponica risolva le tensioni interne senza proiettarle all’esterno, laddove in Occidente lo sfogo è la protesta (magari anche sterile), non l’uscita di scena silenziosa e definitiva per non essere riusciti a svolgere il proprio ruolo.

I primi amanti per le strade di Kyoto in processione. Fonte: YouTube.com

In Gli amanti crocifissi (Chikamatsu no monogatari, 近松物語, 1954) di Kenji Mizoguchi, l’idea della soppressione fisica degli ‘eversivi’, suicidio o messa a morte che sia, tornerà ossessiva per tutto il film: è il solo modo per ristabilire l’ordine, meglio ancora se fatto da sé col solo aiuto della spada, senza lo scempio di una pubblica umiliazione.

La storia, si badi bene, è presa da un soggetto teatrale, tratto a sua volta da una storia vera, del grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon, Daikyōji Mukashi Goyomi (大経師昔暦), rielaborato da Yoshitaka Yoda e Matsutaro Kawaguchi alla sceneggiatura ed ambientato nello Shogunato Tokugawa (1603-1868, anche detto periodo Edo): nella Kyoto del 1684, la stretta morale sugli abitanti si fa più pressante ed investe la famiglia dello stampatore imperiale, Ishun (Eitarō Shindō).

Mentre si preparano i calendari per la corte imperiale, la sua giovane e virtuosa moglie Osan (Kyoko Kagawa) riceve la visita del fratello che per debiti ha dovuto impegnare la casa di famiglia.

Osan, per venire incontro a lui e alla madre, ha già chiesto molte volte dei soldi al marito che è un mostro di tirchieria e sapendo di ricevere un rifiuto, chiede aiuto a Mohei (Kazuo Hasegawa), il principale calligrafo della bottega e suo servo favorito.

Lui, che per la padrona ha del tenero, decide di aiutarla ma è scoperto dal viscido Sukeyemon e i suoi sensi di colpa portano ad una rovinosa confessione che fa imbestialire Ishun.

A nulla serviranno l’aiuto di Osan e della serva Otama (Yoko Minamida), che è innamorata di Mohei e tenta nel frattempo di respingere le avances del padrone: lui è confinato in soffitta, mentre Otama confida alla padrona le attenzioni di Ishun per lei.

Scena della confessione di Mohei. Fonte: YouTube.com

Osan si scambia apposta con Otama per una notte per sorprendere il marito ma trova Mohei, che stava per confidare all’amica l’idea della fuga. Scoperti da Sukeyemon, Mohei fugge e Osan è confrontata dal marito che le mette di fronte la katana per risolvere la questione, non credendo alle sue spiegazioni.

Alla fine, Osan se ne andrà con Mohei, stanca del marito. I due, che mantengono ancora un rapporto rispettoso e casto, se ne vanno ad Osaka per racimolare il denaro per la famiglia di lei, che arriva puntualmente.

Braccati in quanto fuggiaschi, l’esasperazione li porta all’idea di un suicidio congiunto: in una barca sul lago Biwa, Mohei approfitta della situazione per confidare ad Osan il suo amore, nascosto per troppo tempo. Lei, scossa dalle sue parole, non vuole più morire ora che è veramente amata.

Questa è solo la prima parte di una tragedia figlia della grettezza, della fedeltà e dell’ironia: in fondo, i due diventano realmente amanti, quindi colpevoli, solo dopo che il finto scandalo sia nato, per un gioco di pressioni e proiezioni del contesto su di loro.

La fine, ricercata volutamente dopo un distacco a cura di samurai messi alle loro calcagna, che li trovano nella capanna del padre di Mohei, era già stata preannunciata all’inizio del film dalla processione su un asino di due altri amanti per le vie cittadine, prima della crocifissione.

Il film, in un movimento circolare, si fermerà proprio durante il passaggio dei protagonisti per le vie di Kyoto: a detta dei servi, Osan non era mai sembrata così felice.

Film sociologico quanto di sentimenti, Gli amanti crocifissi mostra una grammatica limpida e secca a suon di camera fissa e carrellate, preferendo i campi ai piani per la resa ambientale, ponendo l’accento sull’importanza spaziale, le griglie dei fusuma e l’assetto guadrangolare degli ambienti domestici.

Osan e Mohei arrivano nella capanna di una vecchia fuori Osaka. Fonte: YouTube.com

Le griglie delle pareti e i pali di legno della capanna in campagna hanno lo stesso effetto, quello di far percepire la trappola che è intorno ai protagonisti: soltanto nella fuga di Mohei nel bosco, mentre tenta di lasciare Osan pensando così di scagionarla, si concede alla coppia un momento felice di effusione che sia effettivamente riecheggiato e assorbito nel paesaggio.

La scena sul lago Biwa infatti, pur essendo un momento di liberazione interiore, sembra realizzata in un limbo per la nebbia del lago.

La fotografia di Kazuo Miyagawa è splendida per i trapassi dal nero al bianco in un mondo di grigi asciuttissimi e la musica di Fumio Hayasaka, fatta di tamburi, takigoto e flauti, sembra rendere il battito interno del film, quasi fosse il suono della fibrillazione di un organismo.

Un esercizio gustoso per i cinefili accaniti sarebbe quello di stendere un ‘elettrocardiogramma’ del film, creando un asse x per il fattore temporale, segnando i minuti delle sequenze musicali, insieme ad un asse y per il volume raggiunto dagli strumenti: ne avrebbero solo giovamento e studierebbero la profonda giustezza del montaggio sonoro nel film.

Mizoguchi, si ricordi, è uno dei nomi immancabili del cinema giapponese del ‘900 e con Gli amanti crocifissi, presentato a Cannes nel ‘55, ha mostrato al pubblico un altro tassello della sua ricerca sul Giappone, sulla condizione femminile nel Sol Levante, sulla forma filmica, sul rapporto attori-camera.

Infatti, sulle interpretazioni dei protagonisti, sul loro lavoro infinitesimale teso verso la resa delle sfumature e la forza della presenza nell’ambiente, non si può dire nient’altro che questo: “vedere per credere”.

I servi guardano Mohei e Osan in processione. Fonte: YouTube.com

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