Cinema

Viaggio a Tokyo

L’interesse per la famiglia attraversa la cultura giapponese come una vena aurifera che ci consente, anche attraverso il cinema, un’analisi attenta dello stravolgimento sociale nel secondo dopoguerra del Sol Levante. Nessuno però tra i registi nipponici si è posto la questione di rappresentare questo tema con una costanza tale da far arrivare il proprio stile al livello di una vera e propria ‘metrica‘, tranne che Yasujiro Ozu (1903-1963).

La sua costanza espressiva ha perfino spinto i cinefili suoi ammiratori ad ironizzare, dicendo che egli avrebbe girato lo stesso film per tutta la vita. Questa nota scherzosa tocca più tasti di quanto si possa pensare, visto che la grammatica e la sintassi del regista ci forniscono l’esperienza di una visione ferma che contiene, regolarizza e seleziona in senso drammaturgico e visivo il quotidiano.

L’obiettivo di Ozu è quello di sincronizzare la nostra percezione con il suo occhio filmico che opera un filtraggio fortissimo sulla realtà in senso visivo quanto drammaturgico.

Il risultato è quello di uno stile che è tanto più forte quanto meno ha bisogno di mostrare i muscoli: si affida ad un invidiabile senso della statica per posizionare ed ordinare i corpi nello spazio; impagina i volti nel fotogramma con una gestione attentissima del loro ordine nello spazio, della centralità dei primi piani, delle diagonali, del campo lungo e del piano americano; pensa la camera come personaggio tra i personaggi grazie al posizionamento ribassato, più vicino al pavimento, che diede celebrità mondiale al ‘tatami shot‘; dedica al paesaggio un’attenzione minuziosa dimostrata nei campi lunghissimi, lasciandoli ammirare con l’arricchimento dei suoni naturali o la colonna sonora ad archi.

Perfino nei momenti più malinconici, i film di Ozu trasmettono benessere proprio per l’equilibrio che li definisce, per l’impressione fisica, in certi punti ipnotica, data dalla calma che proviene dalla ‘giustezza’ del linguaggio e della messa in scena. Viaggio a Tokyo (1953, in originale Tokyo monogatari (東京物語), ‘Una storia di Tokyo‘) non smentisce questo giudizio mentre ci porta tra le pieghe dei rapporti della famiglia protagonista, gli Hirayama.

I vecchi coniugi, Shūkichi (Chishū Ryū) e Tomi (Chieko Higashiyama) vivono ad Onomichi (prefettura di Hiroshima, sud-ovest del Giappone), città ancora legata ad un aspetto tradizionale come mostrato dalle immagini di introduzione. Assieme a loro è rimasta la figlia più giovane, Kyoko (Kyoko Kagawa), maestra di scuola, mentre gli altri si sono ormai da tempo fatti una vita fuori dalla città natale.

Proprio per andare a trovare i maggiori, risiedenti a Tokyo, Shukichi e Tomi decidono di partire in treno, dopo tanto tempo che non si erano mossi da Onomichi. Arrivati a destinazione, si scontrano, mostrando una delusione che si fa strada poco a poco, con la freddezza del primogenito Koichi (So Yamamura), oculista e medico di quartiere in periferia, che sembra non aver tempo per loro, proprio come i nipoti Minoru ed Isamu che ignorano i nonni.

Ospitati in seguito dalla figlia Shige (Haruko Sugimura), che non fa mistero delle sue scocciature e delle sue mellifluità, i due vengono inviati a casa della nuora Noriko (Setsuko Hara) e in seguito alla terme di Atami, troppo rumorose e giovanili per loro.

Sarà proprio la nuora, vedova di un loro figlio morto in guerra, a mostrare per loro un affetto sincero, peraltro ricambiato. Lo stacco tra lei e i figli naturali è lampante nel calore e nella dedizione che questa figlia acquisita dimostra loro nello spazio ristretto dalla sua stanza in un condominio popolare, cosa sottolineata dalla lingua originale per cui i suoceri sono chiamati come i genitori veri e propri, otousan (おとうさん) e okasan (お母さん).

Immagine del funerale. Fonte: Tumblr.com

Il finale, dopo che vari sentori di morte s’aggirano intorno ai vecchi coniugi portando alla morte di Tomi, ribadisce il loro legame che supera di gran lunga quello di sangue. Che dire poi della reazione ammutolita di Noriko alla notizia della scomparsa imminente della sig.ra Hirayama, quando sembra che i due figli maggiori ne parlino come di una manutenzione da fare in un vecchio immobile condiviso? O delle confessioni, dovute all’inquietudine e alla malinconia dell’essere rimasta sola, fatte al padre che desidera vederla felice e le dona l’orologio della moglie?

Noriko, perdipiù, oltre che rappresentare per Ozu l’immagine di un affetto nato spontaneamente, per affinità elettiva, si fa anche portavoce di una saggezza ed una comprensione delle imperfezioni della vita.

Sarà lei, infatti, a tentare di far comprendere a Kyoko che la vita può dividere le persone ed indurirle, dopo che la figlia minore degli Hirayama mostra il suo fastidio per la noncuranza di Koichi e la rapacità di Shige che non pensa ad altro se non a prendere i vecchi kimono della madre dopo il funerale, per poi andarsene come una ladra.

La natura rituale di questo film, in quanto lento viaggio negli inferi degli affetti, mostrati nella loro falsità ed apparenza, in quanto lento accompagnamento verso la tomba e ‘crisi’ (nel senso dell’etimo, quindi ‘cambiamento’) della percezione, ha la sua massima espressione nel funerale di Tomi, cui partecipa anche un terzo figlio degli Hirayama, l’impegato Keizo (Shirō Ōsaka).

La sequenza del rito buddhista dà la possibilità ad Ozu di comporre un’unità visiva e sonora di pura sospensione: il dolore è asciugato attraverso l’ordine, l’unità corale dei monaci sembra porre sulla sua stessa frequenza tutto il profilmico per le infilate dei volti o nei primi piani, per i campi lunghi sulle tombe e le simmetrie sottolineate nello spazio della funzione.

Nella stessa atmosfera chiara che avvolgeva gli spazi descritti nel film, si conclude così la storia di una vita e di una famiglia, mostrando i veri legami del cuore in una scrematura pacata e gestita a piccoli passi, per trapassi di sfumature drammaturgiche. Le stesse che ci avevano svelato i lati più simpatici del sig. Hirayama a cui il sakè piace un po’ troppo e quelli malinconici della sua consorte che s’interrogava già sulla morte, mostrando la sua malinconia sotto un sorriso bonario.

Si ritorna così, alla maniera dell’Enso buddhista (円相) o dell’Uroboro occidentale, che rappresentano sia la totalità dell’Universo che il Vuoto, cioè due stati complementari e fondamenti dell’Essere, ai campi lunghissimi di Onomichi, ai suoi battelli, le sue case, i suoi pini.

Tutto si chiude con un movimento circolare, con la coda del film che coincide con la testa, nella cornice di una maniera rappresentativa che ottiene il massimo di espressione e significato con il minimo dello sforzo.

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