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Cyberpunk: Edgerunners

Il tema del sacrificio parla ancora all’anima giapponese. Se adesso l’Eroe è visto con sospetto in Europa, nel Sol Levante sembra che il bisogno di una figura simile sia bruciante.

Se così non fosse, perché mai i giapponesi dovrebbero disseminare manga, anime e visual novels di storie sul coraggio, l’autodistruzione, la dedizione al limite dell’umano? Che queste trame spuntino come funghi in un simile panorama è importante per capire i sogni di un pubblico (a dire il vero non solo nipponico) che non ha, a causa del periodo storico in cui gli è toccato vivere, accesso così diretto ad un giusto sfogo della violenza e degli istinti connaturati nel genere maschile.

Tranne che in alcuni giovani dediti al crimine, alla vita militare, alla lotta o agli sport estremi, alla vita agricola o ascetica, che quindi siano stati capaci di trovare, accettabile o meno che sia da parte degli altri, un loro angolo di mondo e di proteggerlo, nel mondo iper-civilizzato non c’è canale per queste espressioni di valore in una struttura di forza gerarchica (a meno che non sia quella di un ufficio).

Ciò che sembra preferibile negli uomini di oggi sono l’obbedienza, la condiscendenza, la tolleranza: tutte facoltà, guarda caso, passive. Non si pensa che i giovani del III millennio abbiano bisogno di sentire esaltata, sublimata e trasfigurata la loro energia, che parte dal corpo e determina interamente la loro natura.

Ancor meno si ammette il fatto che si veneri almeno quanto si respiri e che la devozione sia una necessità basilare esattamente come il nutrimento o il bisogno sessuale.

Una volta stabilite queste premesse, appare chiaro che alcuni dei protagonisti più fulgidi delle produzioni fumettistiche e cinematografiche giapponesi sono variazioni di una stessa idea: l’Eroe che è tale, diversamente che in Occidente, anche nella sconfitta, in quanto incarnazione di un’ideale in un tutto e per tutto, una figura tesa a ‘non perdere una forma‘ (Guido Taietti).

Lucy e David in una scena del terzo episodio. Fonte: polygon.com

Alla luce di tutto questo, il David Martinez di Cyberpunk: Edgerunners appare come fratello di Shirou Emiya di Fate, di Madoka Kaname (Puella Magi: Madoka Magica), della rivoluzionaria Utena, di Kenshiro e di tanti altri eroi ed eroine votati a sacrificio e all’autodistruzione.

Il suo universo è quello del videogioco Cyberpunk 2077, a sua volta ispirato al gioco di ruolo Cyberpunk 2020 (1988) di Mike Pondsmith e la vita a Night City non è delle migliori: pur essendo uno studente modello dell’Accademia gestita dalla corporazione Arasaka, è isolato dai compagni, molto più ricchi di lui e spocchiosi oltre ogni dire; la madre, Gloria, soccorritrice d’ambulanza, si getta nel lavoro per pagargli gli studi, sia facendo turni di notte che vendendo agli Edgerunners, naturalmente sottobanco, ampliamenti cibernetici dei criminali morti in preda alla cyberpsychosis.

In più, David non ha voglia di studiare e passa il suo tempo con le braindances, filmati in soggettiva che ripercorrono gli ultimi momenti degli edgerunners morti di fresco, dategli dal Ripper (doppiato dal celebre Kenjiro Tsuda), suo amico esperto in trapianti.

A seguito di una lite violenta con un compagno e lo scaricamento di un software inadatto alle lezioni video che scatena il delirio in aula, David rischia l’espulsione da scuola. La morte di Gloria in un disastroso incidente stradale, causato da una gang che aveva preso di mira un veicolo dell’Arasaka, una chiamata velenosa da parte del suo bullo e la scoperta a casa sua dell’equipaggiamento Sandevistan, usato da un edgerunner morto da poco e trafugato dalla madre, fanno traboccare il vaso: David decide di farsi impiantare il modello militare appena trovato che diventa così la sua nuova colonna vertebrale.

Vendicatosi dell’odioso compagno di classe (che si è meritata ogni botta subìta) e lasciata definitivamente la scuola, la vita del protagonista cambia repentinamente. Fa conoscenza della banda dell’edgerunner Maine, che diventa per lui un modello; s’innamora della netrunner Lucy che ben presto ricambia apertamente i suoi sentimenti; cresce e fa sua l’etica e l’efficienza del gruppo, abbracciando la violenza delle strade.

Peccato però che la cyberpsicosi non sia certo lenta ad arrivare: il primo a crollare tra loro è proprio Maine, di cui David diventa l’erede. Ampliato il suo corpo di aggiunte meccaniche una dopo l’altra, il protagonista diventa l’obiettivo delle sperimentazioni corporative, i cui interessi insidiano la banda e spingono Lucy a far di tutto per salvarlo.

La virata tonale ‘in nero‘ di questa serie fluo e sanguigna avviene nell’episodio 6, a metà della storia: stratagemma assai comune nella narrazione degli anime per ridimensionare l’ottimismo dell’inizio davanti alla vera natura dell’ambientazione e alle implicazioni distruttive del potere acquisito dai protagonisti.

Un po’ come la Soul Gem di Madoka Magica e la magia autodistruttiva di Shirou Emiya nella terza route di Fate, l’ampliamento tecnologico del corpo distrugge progressivamente l’umanità dei protagonisti e li hackera dall’interno. Non mancano a questo proposito riferimenti ad Akira di Otomo per via delle sequenze di delirio nelle braindances in cui dalle menomazioni del corpo escono armi e parti metalliche, così come possiamo trovare riferimenti ad Evangelion, per via della carica distruttiva causata dalla ‘fusione’ tra David e la forma espansa del Sandevistan.

Bacio tra Lucy e David. Fonte: kotaku.com.au

I riferimenti, che arricchiscono la trama, non sono mai invasivi e contribuiscono ad incrementare il fascino della serie: si sente che è stata creata da appassionati senza che possa limitarsi agli ammiratori del gioco d’origine o degli anime.

Inoltre, questa serie ha ben poco del compiacimento presente tra i fan del cyberpunk: Night City è una città di tragedia il cui lato distopico non lascia troppe speranze ai sognatori e certo la suaconclusione non può dirsi un lieto fine. Per virtù di contrasto, il romanticismo della serie è valorizzato proprio dalla costrizione estrema che l’ambiente tecnocratico gli impone, dalla minaccia della tecnologia sui corpi e le coscienze, in preda a fibrillazioni e glitch che sono segnali più che lampanti della perdita di controllo.

Anche la descrizione dell’operato dei netrunner fa risaltare il costante pericolo della promiscuità tra macchina, cyberspazio e apparato umano (considerando come sue componenti pure le parti invisibili, come spinte ideali, volontà, pensieri, che costituiscono ma non riassumono l’anima). Il genere cyberpunk, d’altronde, ha sempre fatto della ‘non-discrezione‘ degli esseri che lo abitano una propria forza: Cyberpunk: Edgerunners ribadisce questa regola e la espone con una forza ed una lucidità rare.

Inutile dire a questo punto che tutto questo quadro vada a vantaggio delle psicologie a dir poco disperate dei personaggi, che cercano incessantemente un fulcro e un senso nella vita, per poi sceglierli tra l’ambizione, la violenza, l’amore o perfino i sogni altrui, cose che troviamo nella bella, tenera e sfortunata coppia principale, costruita secondo chiari modelli fiabeschi, assai diffusi nelle trame sentimentali dell’animazione nipponica recente.

Il risultato può di certo essere un vanto per lo Studio Trigger di Tokyo e il CD Projekt Red di Varsavia (che ha deciso le belle canzoni dell’intro e della conclusione degli episodi, animati splendidamente), entrambi produttori della serie concepita dall’idea di Rafał Jaki e il soggetto di Bartosz Sztybor, Jan Bartkowicz e Łukasz Ludkowski.

Da ricordare infine è che la regia sia stata affidata alle mani energiche di Hiroyuki Imaishi (fondatore dello studio Trigger, assistito da Hiroyuki Kaneko), la sceneggiatura a quelle di Masahiko Otsuka e Yoshiki Usa. Le ultime doverose menzioni vanno a Yoh Yoshinari (character design e direttore d’animazione), agli storyboard di Yoshiyuki Kaneko, Akira Amemiya, Kōdai Nakano, Kai Ikarashi e Yoshihiro Miyajima, alla direzione cromatica di Yukiko Kakita e agli scenari di Masanobu Nomura.

Fotogramma finale dell’episodio 6. Fonte: Tumblr.com

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