Pranzo di Babette Karen blixen
Letteratura

Il pranzo di Babette

A thing of beauty is a joy for ever.

John Keats

Certi scrittori hanno il dono di unire l’atemporalità dei vecchi racconti con i dettagli della realtà: potessimo accostare giusto due titoli europei, prove riuscitissime in questo senso, alla Karen Blixen (1885-1962) de Il pranzo di Babette, verrebbero in mente Lighea (1958) di Tomasi di Lampedusa (1896-1957) e Wuthering Heights (1847) di Emily Bronte, che però è su una scala a sé.

Sia detto che questi due esempi sono più vicini al mito: il primo per lo scenario (la Sicilia) e l’oggetto del desiderio, che è una sirena, causa di quell’erotismo pervasivo che rende la confessione del professore protagonista una lezione di resa atmosferica e sensoriale; l’altro per la cornice che pone i suoi protagonisti, uomini e donne del Settecento, aldilà e quasi prima di ogni Storia, favoriti dalla lontananza arcana dello Yorkshire, che fa da scenario ad una sorta di intimo “racconto delle Origini”.

Il pranzo di Babette (1958) di Karen Blixen non ha il calore afoso, estivo di Lighea (siamo nei fiordi norvegesi) né la struttura da saga familiare o il tono tragico del romanzo della Brontë.

È un racconto che ha da spartire semmai con la fiaba nordica, cui qualcuno abbia voluto mischiare del materiale da memoir del Secondo Impero francese. Non per niente, s’inizia nel 1800 con le storie di due “fate”, seduttrici loro malgrado, cui la vita s’è spesa tutta nell’isolato villaggio di Berlevaag.

Figlie di un decano protestante fondatore di una setta, Martina e Filippa portano i nomi di Lutero e Melantone, hanno visi angelici e capelli d’oro. Non avendo cognizione della propria bellezza, allevate come sono state a non amare il Bello terreno, le due sorelle incrociano due uomini capitati nel loro paesino, cambiando radicalmente le loro vite.

Comparendogli di fronte come una Lorelei (ma senza ombra di malignità), Martina affascina il giovane ufficiale Lorens Lowenhielm, totalmente ammutolito ed umiliato dal candore della ragazza, ignorante dell’amore come del mondo. Tornato a casa senza averle rivelato i suoi sentimenti, Lorens ricostruisce la sua vita, fa carriera e si sposa.

Tra le due però è Philippa ad essere turbata dal mondo esterno e spaventata dall’amore: quando il cantante parigino Achille Papin arriva a Berlevaag e la sente cantare, lui chiede al padre il permesso di darle lezioni.

Papin ha grandi sogni per la sua allieva in fiore: la sogna con l’Opéra ai piedi, ammirata dal bel mondo e dal popolo. Galetto fu il Don Giovanni di Mozart: lui si tradisce e la bacia, al che lei troncherà il rapporto. Martina non saprà mai fino in fondo il turbamento della sorella.

Soltanto molti anni dopo, nel 1871, un altro straniero varcherà la porta di casa loro: è la cuoca petroleuse Babette Hersant, arrivata stremata dalla Francia, senza più famiglia, coinvolta nelle rivolte della Comune parigina, raccomandata da una lettera di Monsieur Papin che non ha scordato, ormai solo e dimenticato dal pubblico, la sua Philippa.

Babette si adatta perfettamente in quello sputo austero di Norvegia, diventa il fiore all’occhiello della comunità, instillando ammirazione e timore nelle due sorelle stesse che pur dopo tanti anni non sanno ancora tutto di lei.

Quando vince con un biglietto della lotteria francese il premio da 10.000 franchi, con la scusa del pranzo con cui le sue padrone vogliono celebrare il padre predicatore con i fedeli rimasti, la cuoca francese si mette all’opera per cucinare come non aveva fatto da anni.

La preparazione del pranzo, che alle due anziane fate protestanti sembra quasi il rituale di un sabba, porta a risultati inauditi. E il caso vuole che per l’occasione arrivi pure un certo ufficiale che da giovane era passato per Berlevaag…

In questi fiordi immaginati dalla Blixen si ha l’impressione di vedere il blu del crepuscolo norvegese e la luce all’interno della casa con l’evento in svolgimento. È come se vedessimo un film fotografato da Vittorio Storaro o Stuart Dryburgh: a tale livello l’autrice rende, con un crescendo impercettibile, la trasfigurazione di una cena che porta l’estasi tra gente ignara delle gioie terrene, incapace di concepire i sapori che hanno deliziato il bel mondo.

Se c’è un Divino in questo racconto questo è l’Arte, il culto della Bellezza, che sostiene Babette sul piano morale e politico: il suo potere è inebriare gli altri, solo in quello questa cuoca ribelle e sconfitta nella Comune parigina poteva avere il suo riscatto.

Di fronte alle sue padrone ammutolite e commosse, Babette ricorda la nobiltà parigina che andava al Café Anglais per gustare i suoi piatti: perfino quelle persone così crudeli e odiose componevano il suo mondo, erano parte di lei, perché quello era il solo pubblico capace di capire il suo livello, di riconoscerla in quanto artista e, anche se per poco, farsi dominare dalla sua maestria ed essere felice.

Con questi ricordi, a conclusione del racconto, Babette mostra il lato politico del testo ma solo l’Arte arriva laddove non possono le bombe e le pallottole dei communards. Solo il Bello può essere il Dio-burattinaio capace di muovere i fili della trama e a rendere la Cena un Mistero nel senso pre-cristiano del termine.

Non per niente Babette stessa insiste sull’idea del pranzo come un’ultima prova di orgoglio e appartenenza verso sé stessa e la propria arte, come un credente che, gettato in un paese straniero, sia costretto a mettere in sordina la propria fede e decida allora di compiere da sé i riti del culto amato.

Che tutti i nodi del passato nella vita delle sue due padrone, donne semplicissime, frugali ma dal cuore grande, del vecchio ufficiale e dei vecchi seguaci del predicatore siano sciolti e fatti scomparire non fa che rimarcare la sua maestria.

Philippa soltanto però, che è stata attraversata dall’Arte e dall’Amore, pur avendo chiuso loro le porte per paura, potrà percepire il senso delle parole di Babette.

Se già questa ricchezza di contenuti non bastasse ad invogliare il pubblico alla lettura del testo, allora sarà meglio ricordare quanto semplice ed elegante sia l’inglese della versione originale, tale da poterlo narrare ai bambini, con quel modo in cui rende, senza forzare il tono, i moti del cuore, con un inglese pulito, minimale e che pur sembra fatato. Per chi volesse gustarlo in italiano sarà meglio far riferimento all’audiolibro con la voce di Laura Morante della Feltrinelli.

Il pranzo di Babette rimane una tappa immancabile per l’apprezzamento della Blixen: è una lezione di semplicità descrittiva, uso in crescendo di mezze tinte nella costruzione del climax (narrato impercettibilmente, con un realismo incrementato gradualmente), immedesimazione per la resa del linguaggio dei protagonisti nel discorso indiretto, tralasciando i dialoghi, pochi e netti.

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